Quell’insostenibile leggerezza dell’imputato: «Torno a casa?»

In aula, l’altra sera. Non ha chiamato la mamma, ma poco c’è mancato. Come un neonato smarrito e inerme, l’ingegnere Raffaele Sollecito ha ascoltato le decisioni del giudice ed è caduto nel panico più infantile. Neanche l’avessero brutalmente svegliato con un elettrochoc. Dopo un anno esatto di palcoscenico, dopo tante recite al limite del divismo, l’imputato è uscito dalla sua ovattata catalessi e improvvisamente ha compreso. Forse, soltanto in quel preciso momento, mentre la legge lo rinviava a un prossimo processo, con la prospettiva di una condanna pesante e di una seconda vita in carcere, solo allora ha compiutamente realizzato il senso del proprio destino. Come un bimbo, è riuscito semplicemente a lanciare un’accorata e puerile richiesta: «Ma quando posso tornare a casa?».
E come no: finisce il gioco e si torna a casa. Perché mai bisogna farla tanto lunga? Che cosa vogliono, tutti quanti, da me? È la stessa, incredula, stizzita reazione di tanti altri attori protagonisti negli ultimi fatti di sangue italiani. Anche i minorenni che in Sicilia hanno confessato di aver stuprato l’amichetta e di averla buttata nel pozzo, tempo fa: uguali a Sollecito. Giudice, ho detto tutto, la storia è finita, com’è che non mi fa tornare ai fatti miei? Così, ancora, i ragazzi tanto perbene che hanno pestato il signore cinese a Roma: quante storie, abbiamo chiarito, si può tornare a casa?
Firmano crudeltà spaventose, ma alla fine del film si aspettano di alzarsi dalla poltrona e di rincasare tranquillamente, riprendendo le normali occupazioni che un fastidioso accidente ha bruscamente interrotto. Quando si rendono conto che non funziona esattamente così, che per quanto sciatta e svilita la società impone comunque qualche regola fondamentale, a quel punto trasecolano. Ma come, non posso tornare a casa?
Non ci sono eufemismi e giri di parole: per quanto comune e ricorrente stia diventando questo atteggiamento, continua a restare agghiacciante. La prassi recente non può impedirci di riconoscere in queste scene, in queste reazioni, in questo vuoto, qualcosa di inquietante. Psichiatri e criminologi hanno un bel dire. Probabilmente hanno spiegazioni perfettamente logiche. Ma resta in tutta la sua opprimente gravità una domanda irrisolta: questi ragazzi conoscono il concetto di responsabilità? Se lo conoscono, l’hanno ancora ben chiaro?
Vedendoli all’opera, in queste storiacce truculente e disumane, danno la chiara sensazione di esserne estranei. Un’amica viene uccisa in casa sua, a Perugia, nel modo più spietato, più gratuito, più perverso, ma Amanda e il suo Raffaele sembrano coinvolti solo per dovere d’ufficio, come dovessero sbrigare noiose formalità. Va bene, la giustizia faccia il suo corso, però vediamo di sbrigarci in fretta, perché abbiamo altro cui pensare. Dobbiamo tornare a casa. Che ci sia una vita stroncata a quel modo, che loro siano i maggiori indiziati di averla stroncata a quel modo, non sembra toccarli molto. Per spezzare l’attesa, per rompere la noia, Amanda civetta dal carcere con i suoi calorosi spasimanti (pure quelli, una sensibilità divina), mentre Raffaele mette alla frusta il papà perché lo tiri fuori velocemente da questa scocciatura, così da riprendere la sua futuribile e luminosa carriera. Della cornice di questo quadro cupo e macabro, a base di alcol e cocaina, notti svalvolate e sesso estremo, non hanno alcuna voglia di rispondere. Quella è la normalità. Poi è morta Meredith, e va bene. Qualcuno l’avrà uccisa. E va bene. Ma adesso possiamo tornare a casa? Quanto deve durare, ancora, questa rottura delle inchieste e dei processi?
È evidente: siamo ai confini della realtà. Questi giovani imputati si muovono senza coscienza di sé e dei gesti compiuti. Mentre noi, meno giovani, cresciuti a schiaffoni e sensi di colpa, oltrepassiamo il limite di velocità in autostrada già angosciati all’idea di quel che ci può capitare, questi nostri successori sguazzano nel sangue, rimuovono cadaveri, occultano prove, lavano coltelli quasi ripetessero operazioni di routine.
Forse però siamo al punto. Forse il problema è che fondamentalmente quei gesti sono davvero la loro routine. Li hanno visti e rivisti migliaia di volte, sin dalle più tenere età, dentro le realtà virtuali dei tanti schermi che si sono sempre trovati in camera. Affondare un coltello in un corpo umano è da troppo tempo un’azione domestica, abituale, ripetitiva, facile, comune, nelle nostre case. È un attimo, dopo un così lungo e serrato lavaggio del cervello, perdere la coscienza di quanto invece sia grave, blasfemo, irrimediabile giocare macabramente con la vita umana. Succede che anche il delitto vero, con l’amica stuprata e gettata in fondo al pozzo, con la compagna di studi umiliata e assassinata durante un gioco alcolico, alla fine non faccia molta differenza rispetto ai tanti vissuti da spettatore. La differenza c’è, abissale e assoluta, ma riesce difficile coglierla. Si diventa apatici spettatori di se stessi. Del proprio abominio. Della propria fine. Come dal di fuori, come davanti ad uno schermo, nasce spontanea la domanda leggera: adesso che sfilano i titoli di coda, posso tornare a casa?
No, ingegner Sollecito. No, picciotti di Sicilia. No, bulletti di Roma. Non si torna subito a casa. Purtroppo, le vostre sanguinose fiction non finiscono qui.

Stavolta è un film strano: bisogna risponderne. Meglio farsene una ragione, meglio cominciare a ragionarci sopra. E chissà che prima o poi, in un giorno qualunque, tra le vostre stupite reazioni possa riaffiorare persino quel sentimento ignoto che si chiama pietà.

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