Quella crociata imbrogliona contro il pane "sprecato"

Da giorni i principali quotidiani riportano la notizia che a MIlano si gettano 180 quintali di pane al giorno. E giù la valanga dei commenti, tutti tesi a farci sentire in colpa. E nesssuno scrive che sono sei grammi a testa

Quella crociata imbrogliona contro il pane "sprecato"

Ma volete finirla di colpevolizzare i milanesi e di riflesso tutti gli italiani per lo spreco del pane quotidiano? Mi sembra di essere tornato all’epoca del fascio quando infuriava la campagna evangelico-autarchica con i manifesti mussoliniani: «Non sprecate il pane quotidiano». Gli stessi toni tornano nei media e sui giornali di questi giorni postfestivi; non passa giorno senza che qualcuno si indigni per lo spreco, parroci e intellettuali in testa. Ma quella era una società povera, la campagna del pane esplose dopo le sanzioni contro l’Italia e poi in clima di guerra, quando il pane era razionato e introvabile, c’era la tessera del pane. E in quel tempo il pane era davvero l’alimento principale per la gente, e la carità di pane riguardava semmai i poveri sotto casa, non i remoti affamati del Terzo Mondo. Qui invece tutto regge su un imbroglio e un illusionismo. Basta ragionarci su per capirlo.
Dunque per farci scoppiare il senso di colpa, soprattutto dopo le grasse feste natalizie, ci sparano una cifra esagerata nel suo complesso: ogni giorno si sprecano nella sola Milano centottanta quintali di pane, e voi già vi sentite delle bestie. Poi provate a ripartire quella cifra per i tre milioni di persone che ogni giorno consumano almeno un pasto a Milano, tra abitanti residenti e pendolari, e vi accorgete che non si sprecano neanche sei grammi a testa. Una cifra trascurabile che non riuscirebbe a sfamare neanche un uccellino. Ma poi perché proprio Milano e non Bologna o Firenze, Napoli o Bari? Non vorrei essere malizioso ma perché Milano viene considerata la patria del consumismo, di Berlusconi, della Moratti, della Lega, figlia della Milano craxiana da bere. Insomma il luogo adatto per far partire un’operazione pane pulito a opera di qualche pool di fornai d’assalto...
Il tema del pane sprecato è doppiamente finto e retorico, non solo perché non c’è effettivamente tutto questo spreco, ma anche perché sottende un’accusa di egoismo che in questo caso non funziona. Cosa dovrebbero fare i milanesi e gli italiani, spedire ogni settimana un panino in eccedenza ai poveri del Terzo Mondo, sottoscrivere una quota pane ai forni, sottratta alla loro ingordigia consumista, per esportare il pane nei luoghi lontani? Ma non sapete che il pane è l’elemento più deteriorabile e che il rimedio semmai è quello di politiche che incrementino coltivazioni di grano e lavorazione di pane in loco? Stabilire un rapporto diretto, anche solo simbolico, tra quei sei grammi che finiscono nella pattumiera e la nostra insensibilità verso la fame e la miseria, è davvero infame. Lasciate che io trovi più cristiana l’antica abitudine di baciare il tozzo di pane destinato alla pattumiera. È un segno di rispetto per il corpo di Cristo, per la magia di quel nutrimento, per il lavoro dei forni e per la fame di chi non può permetterselo, assai più sobrio e più umano di quella stupida campagna senza sbocchi concreti, per far venire i sensi di colpa. Nelle società agricole, il pane avanzato sulla tavola finiva alle galline o si grattugiava per il giorno dopo; ma qui le galline le vedi solo nei cartoni animati e nessuno ricicla più niente, e pochi cucinano, figuriamoci le molliche. Piovono polpette e di mollica in eccesso c’è solo il giornalista del Tg1 in sovrappeso.
Comunque, nella classifica degli sprechi, mi pare che quello del pane sia davvero minimo, trascurabile, anche se più suggestivo perché evoca un simbolo ancestrale della fame e del suo sfamarsi. C’è spreco di energia elettrica, di acqua, di plastica, di tutto; e noi ce la prendiamo con quel modestissimo sfrego, roba di poche briciole... Se c’è un tema su cui siamo passati dall’iperconsumo al sottoconsumo quello è proprio il pane. La vera emergenza non è lo spreco di pane ma il suo scarso consumo. Nelle famiglie della mia infanzia c’era un consumo di pane tre volte superiore a quello odierno. Si mangiava tutto col pane, e i bambini per strada, almeno al sud, avevano sempre in bocca un tozzo di pane che poi si ammorbidiva con la saliva; era il primitivo cellulare per restare in contatto con la casa e la famiglia... Ora il pane è diventato una figura marginale e residuale sulle tavole italiane, o vi rientra come sfizio, come raffinata porcellana delle mense; e poi ci sono tanti concorrenti variopinti, tra pizzette, croissant, grissini e crostini. Non mancano i pani industriali, gommosi o plastificati, prestampati come moduli intestinali.
Al pane e alla sua poesia dedicai pagine di un mio libro, ricordando il fascinoso lavoro dei panettieri, a cui Proust diceva che più somigliava l’arte dello scrittore; ma anche i riti famigliari di portare al forno pani, focacce e taralli, gli odori ingenui della mensa profumata dal pane, i mitici pani di montagna o di antichi forni, le civiltà che si distinguono dalle popolazioni barbare proprio per la lavorazione del pane. C’è una letteratura intorno al pane che ha l’odore della verità e della semplicità, della religione e dell’offerta. Dividersi il pane era la forma primordiale di amicizia, sentirsi consorti nel condividere il primario nutrimento. La mia tesi spirituale e alimentare è che la famiglia è in crisi da quando è in crisi il consumo del pane.

Anche in questo caso a me spaventa, assai più di quei sei grammi a testa che vanno sprecati, i sacchi di grano abortiti o deviati in partenza, che non diventano pane. Merita di essere scritta una lettera a un panino mai nato.

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