Giosue Carducci lo liquidò come roba «da panche di scuola». E secondo me fu generoso. Parliamo ovviamente del «Canto nazionale» poi ribattezzato Fratelli d'Italia, parliamo dellinno di Mameli (anche se, come vedremo, mica è detto che ne sia stato lui, il paroliere). Inno tuttora provvisorio, scelto dal governo De Gasperi (inciucione istituzionale: Dc, Pci, Psi, Pri) per sostituire la Marcia Reale che per un secolo aveva scandito i momenti solenni della nazione. Fu una scelta affrettata: pochi ne conoscevano laria e pochissimi le parole, ma aveva le stimmate risorgimentali e quindi passò, «in attesa di scegliere quello definitivo», come recita la deliberazione ministeriale dell'ottobre 1946.
In verità, a declamarlo tutto, l'inno di Mameli, cè da farsi venire la pelle d'oca. Prendiamo il quinto versetto: «Son giunchi che piegano/le spade vendute/già laquila d'Austria/le penne ha perdute/il sangue d'Italia/il sangue polacco/bevé col cosacco/ma il sen le bruciò!» Bella roba, ora che l'Austria è nostra sorella germana, lembo della patria comune europea. Non è dato poi sapere quanti italiani, intonandolo, afferrino il significato dellelmo di Scipio o di una vittoria schiava di Roma. O non equivochino su quei «bimbi d'Italia» che son «tutti balilla» o non facciano gli scongiuri al «siam pronti alla morte». E poi la musica di Michele Novaro, quel paraponzi ponzi bandistico: niente a che vedere, tanto per fare un esempio, con la percussione della Marsigliese e del suo attacco, quell«Allons enfants de la Patrie» (ma pure nell'inno francese cè sangue di troppo; e truce soldataglia che mugghiando sgozza donne e bambini; e belve che senza pietà straziano il seno della propria madre. Per dire). Insomma, Fratelli d'Italia è bruttarello, anche se le alternative proposte, il coro del Nabucco (società civile) e Azzurro (il risultato di un sondaggio fra glitaliani) risultano un «tacon» peggio del «buso». Nella prima ipotesi e a parte che «la patria sì bella e perduta» non è il Bel Paese, ma la Terra promessa, toccherebbe cantare versi di questo tenore: «Arpa d'or dei fatidici vati/perché muta dal salice pendi?». Nella seconda, quella indicata dalla maggioranza dei compatrioti, «cerco un po' d'Africa in giardino, tra l'oleandro e il baobab» e non mi pare proprio il caso.
Per tornare a Fratelli d'Italia, non è mai stato chiarito se il testo sia di mano di Goffredo Mameli o del padre scolopio Atanasio Canata, poeta, prosatore, drammaturgo, docente nel collegio di Carcare dove nel settembre 1846 soggiornò il giovane Mameli (annoiandosi a morte: «Qui ogni momento si prega - scrisse a un amico - cosa buonissima ma che guasta la ginochia»). Molti sostengono che in quell'anno Canata vergò il testo del Canto Nazionale, dove, guarda caso, si esortano i «Fratelli d'Italia» con parole di pedagogo, qual era lo scolopo e quale non era Mameli: «Uniamoci, amiamoci;/l'unione e l'amore/rivelano ai popoli/le vie del Signore...». E poi, quando Canata inviò il testo a Novaro, autore della musica e grande amico di Goffredo, scrisse: «Te lo manda Mameli», non già «È di Mameli».
La questione, dunque, è aperta, ma tutto sommato conviene chiuderla.
Paolo Granzotto
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