Cronaca locale

Quella rossa croce rifugio degli infermi

In silenzio e umiltà, vestiti solo del loro saio con la rossa croce, hanno accompagnato la storia di Milano lenendo sofferenze e le afflizioni dei malati con il conforto e l'assistenza. Se ogni epoca ha causato la sua pestilenza, dalla lebbra alla sieropositività, ha anche visto i seguaci di San Camillo de Lellis prodigarsi per la guarigione degli infermi. A volte fino allo stremo, fino all'annullamento delle proprie energie personali. Il viaggio nei drammi umani - guerre, epidemie e carestie durante le quali la popolazione ambrosiana ha trovato rifugio nel Lazzaretto di manzoniana memoria, piuttosto che all'ospedale Cà Granda o alla Madonna della Salute, fino all'ospedale Sacco di Vialba - è dettagliatamente raccontato in San Camillo de Lellis e l'Ordine dei Ministri degli Infermi nella storia della Chiesa di Milano, autori Maurizio De Filippis ed Elisabetta Zanarotti Tiranini (Edizioni Ares, euro 20). Il libro è stato presentato ieri, nell'aula magna dell'Ospedale «Luigi Sacco», in occasione della «Giornata del Malato», celebrata l'11 febbraio. Forse non è un caso che, proprio nella sensibile Milano dove gli orfani trovarono con Dateo (787 circa) la prima ruota per gli infanti e con San Barnaba e i Barnabiti l'assistenza gratuita ai malati di tubercolosi, lebbra, peste e febbre tifoidea, nasca e si propaghi il messaggio dell'energico ma umile San Camillo De Lellis (1550-1614) che, pur non conoscendo l'esistenza di virus e batteri, predicò e si batté per «luce, aria, pulizia e buon cibo» nei luoghi di degenza. E il sant'uomo arrivò ad acquistare un raschietto per mettersi carponi e rimuovere egli stesso le sporcizie che incrostavano gli alloggi dei malati. Ma rivoluzionaria «regola» che impose ai suoi crociferi fratelli «Ministri degli Infermi» fu quella di trattare gli ammalati e gli appestati non come «oggetti di cura», bensì «con l'affetto di una madre verso il suo unico figlio infermo e guardando il povero come la persona di Cristo». E' con tale insegnamento che i Camilliani affrontarono la seconda e ben più grave epidemia di peste del 1629-1630, causa di 70mila morti su una popolazione ambrosiana di 130mila anime. Chi transiti in via Gentilino e piazza Tito Caro, abbia passo rispettoso: sotto quell'asfalto riposano le ossa di oltre 20mila deceduti nell'antico «lazzaretto del Gentilino». Fu il camilliano Giulio Cesare Terzago a riconoscere il primo appestato lanzichenecco del 1629, ma le sue esortazioni vennero ignorate. Poi, la strage, le atrocità impartite a Mora e Piazza, il panico popolare per «il castigo di Dio» e le processioni indette dal cardinal Borromeo che, anziché scongiurare, favorirono il contagio. Persino il Manzoni rende merito, oltre ai frati Cappuccini, ai «Ministri degli Infermi con la rossa croce», ispirando ad essi il carismatico personaggio di Fra Cristoforo. I secoli successivi non risparmiano nuove afflizioni sociali: malaria, pellagra, tifo, tubercolosi, fino alla decimazione della «Spagnola» del 1918-1919. E loro, i Camilliani, sempre lì, in prima linea, a confortare nel corpo e nello spirito i disagiati. L'Ordine, pressoché dissolto con le proscrizioni napoleoniche, risorge dopo il 1870 e dalla seconda metà del Novecento diviene più che mai rigoglioso e operativo nella diocesi ambrosiana con la presenza negli ospedali di Vialba, Rho, San Paolo alla Barona, Carate, Besana e Giussano. I nuovi nemici si chiamano Aids, Tbc di ritorno causata dall'immigrazione clandestina, aviaria, Ebola. E i Ministri degli Infermi compaiono anche nei quartieri e nelle sacche degli stranieri che cercano speranza, cibo, parole di conforto. E' qui che interviene l'intraprendente camilliano Fratel Ettore, che scopre il volto nascosto della metropoli, le situazioni di emarginazione e miseria che sfuggono alla vista dei molti. Dalle prostitute ai barboni, dai tossicodipendenti agli alcolizzati. Sono le nuove pestilenze sociali della globalizzazione. Epidemie che arrivano e vanno, con forme, patologie, epoche e civiltà diverse.

Ma a contrapporle ed alleviarle non mancherà quella rossa croce sul nero saio.

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