Quelle detective delle foibe che ridanno voce ai morti

Massimo M. Veronese

Samuel ha più o meno trent’anni e una brutta storia alle spalle. Forse per questo è sempre piaciuto alle donne, perché bello e maledetto. Samuel è l’ultimo uomo che Clea ha accarezzato e ci ha messo tutto l’amore che poteva in quella carezza. Perché ci vuole cuore, ma anche stomaco e fegato per accarezzare le mani di Samuel, le mani di un infoibato che neanche le distingui dalle mani degli altri. Migliaia di mani. Un milione e seicentomila mani. Tutsi, sterminati in cento giorni, seppelliti in fosse comuni o in latrine, undici anni fa in Ruanda. Clea alza gli occhi, ipnotizza l’attenzione. Sembra un’antica regina di un mondo sommerso. Bellissima: «Samuel parla solo con me. Mi deve dire chi l’ha ucciso...».
Maureen ha cambiato alloggio spesso negli ultimi mesi, almeno quattordici volte, ma ha sempre vissuto nello stesso fetido buco di casa. La fossa di Hatra, nel nord dell’Irak, o quella di Hilla, più a sud, dove Saddam Hussein ha fatto seppellire, senza preoccuparsi se fossero vivi o no, centottantamila curdi. Buchi neri che hanno inghiottito volti, braccia, anime, il cielo stesso. Al processo a carico del raìs uno dei faldoni principali che documentano gli orrori del regime è firmato da lei. Ci sono foto, prove scientifiche, analisi investigative. Pesanti come lapidi.
Non è la prima volta che Maureen ridà luce alle ombre. In Bosnia lavorò all’identificazione dei resti delle settemila persone seppellite a Srebrenica dai serbi. Dice: «La cosa più difficile è verificare che quello che trovi di una persona non appartenga a un’altra». Ma niente di ciò che ha visto le ha tolto quell’angolo di dolcezza negli occhi.
Ann ha i capelli raccolti in un codino e le mani dentro qualcosa che non ha forma. È un tipo freddo, lucido. Capace, dicono, di impressionante autocontrollo. Ma certe volte, come questa, il suo cuore perde un battito. Quello che ha in mano non è nemmeno un bambino, ma una manciata di vita, una manciata di niente. Un desaparecido. Ce ne sono centinaia qui sull’isola di Coiba, vittime degli squadroni della morte del generale Omar Torrijos, e poi di Manuel Noriega, «faccia d’ananas». Non ha molta voglia di parlare. Difende con un sorriso questo suo voler essere di un altro mondo, lontanissimo da noi. Dice: «La paura più grande è che le mie emozioni mi impediscano di lavorare, ma trovare bambini è tremendo. Sono i loro corpi senza difesa a darti la rabbia per andare avanti».
Clea Koff, Maureen Schaefer e Ann Ross, sono detective un po’ particolari: fanno parlare i morti. Sono specializzate in genocidi, pulizia etnica, stermini di massa. Un po’ Charlie’s Angels e un po’ Tomb Raiders. Da resti di niente sono capaci di tirar fuori tutto: identità, causa della morte, dinamiche, colpevoli. Sono antropologhe forensi: il loro lavoro è scovare gente senza nome e assassini senza volto. Per consegnarli ai tribunali internazionali, alle associazioni per i diritti umani, alla commissioni d’indagine governative. E riscrivere la storia. Sono le più richieste, le migliori. Ma sono loro a pagare il prezzo più caro.
Clea non è sposata, non ha figli, dice che farebbe fatica a metterne al mondo uno dopo tutto quello che ha visto. Soffre di incubi la notte, e sul lavoro «a volte ho l’impressione che qualcuno mi cammini a fianco». Vive con i genitori in una villa di campagna di Los Angeles e si è presa da poco un appartamento a Melbourne. «Il lavoro è tutto quello che ho», trentacinque dollari l’ora per riesumare cadaveri. A 32 anni è una veterana di guerra: ha lavorato in Bosnia, Kosovo, Ruanda. Dice: «Le ossa sono una persona uccisa che mi chiede in silenzio di incastrare il suo assassino». Grazie ai suoi interrogatori 44 criminali di guerra sono stati condannati all’ergastolo dal tribunale internazionale. Una belva.
Anche Maureen vive con i genitori in una casetta di White Oak, dalle parti di Cincinnati. Per anni non ha avuto paura di niente tranne che di dichiarare il proprio lavoro. «Diceva di essere impiegata in un’agenzia di pompe funebri», sorride la madre. Ma i ragazzi scappavano lo stesso, e allora tanto vale dire la verità. A 30 anni il suo unico amore resta il lavoro: «Un’avventura bellissima e crudele». Cominciata per sbaglio durante una gita scolastica: capitò in un cimitero, e da quel giorno non fu più la stessa. Un pomeriggio il fratello la scoprì ragazzina fare rilevazioni con la candeggina sulla pelle di un cervo morto. Per lo choc non le rivolse la parola per settimane. Anche Clea era così da piccola. A 13 anni seppellì un piccione trovato morto davanti a casa. Poi volle capire, lo disseppellì e lo portò al suo insegnante di scienze: «Mi guardò come se avesse di fronte una futura serial killer...».
Ann è la più anziana delle tre, ma sembra la più ragazzina. Ha 38 anni, viene da Knoxville, nel Tennessee, e quando non setaccia foibe insegna al dipartimento di sociologia e antropologia della North Carolina State University. Metodi avanzati di antropologia legale. Pochi amici, qualche interesse, una passione che divora tutto. Con la paura che a sbriciolarsi prima o poi sia la tua vita.

«Quando vedo quei resti o quelle ossa penso che non c’è nessuna differenza tra me e la persona che ho di fronte». Anche se hanno incastrato Milosevic, Saddam e Noriega, puoi metterci tutto l’amore che vuoi, ma non è facile farsi accarezzare da donne così. Belle sì, ma da morire.

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