Politica

Quelle indagini «politiche» contro la ’ndrangheta

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Il 21 maggio quarantamila persone sono sfilate in corteo per le vie di Lamezia Terme. La manifestazione, intitolata alla «Calabria degli onesti», è stata organizzata dai sindacati in segno di solidarietà con il sindaco, che è stato appena eletto dopo tre anni di commissariamento del Comune sciolto per le infiltrazioni mafiose, e che è stato già fatto segno di nuove intimidazioni da parte della criminalità organizzata, la 'ndrangheta, che in Calabria conta seimila affiliati, uno ogni 345 abitanti, e fattura più del prodotto interno lordo: 35mila milioni di euro contro 28mila 970, più di 22mila milioni di euro per il traffico della droga, il giro d'affari legati agli appalti truccati alla compartecipazione in imprese ammanta a circa 5000 milioni di euro, e pagano il pizzo 15mila commercianti calabresi, ossia il 50 per cento degli esercenti, con punte fino al 70 per cento nella solo città di Reggio Calabria. In testa al corteo c'erano il sindaco, il presidente e il vicepresidente della Regione, gli assessori, il viceministro alla infrastrutture, il responsabile sicurezza dei Ds, il vescovo, e un magistrato della procura distrettuale di Catanzaro. Dopo la manifestazione, il presidente della Confindustria calabrese, un imprenditore del tonno, ha spedito una lettera aperta al Presidente della Repubblica Ciampi chiedendo l'intervento dell'Esercito, che già scese in Calabria a presidiare l'Aspromonte più di dieci anni fa, all'inizio del '94: «Ho bussato a tutte le porte - ha dichiarato - e tutti mi hanno allargato le braccia. Ho incontrato anche il capo della polizia Gianni De Gennaro, gli ho spiegato la tragedia della Calabria,gli ho detto “Eccellenza,la situazione è gravissima”... Lui mi ha risposto che aveva un altro spaccato della realtà calabrese,dalle relazioni politiche risulta che la Calabria sia un'altra cosa rispetto a quella che viviamo noi imprenditori...».
Tutti hanno dichiarato di «capire la provocazione» del presidente della Confindustria calabrese, il sindaco, il presidente della Regione il viceministro, il vescovo, il rappresentante dei Ds, ma «solo in astratto e come misura estrema», perché «la questione è molto delicata e complessa», e «l'impiego dell'esercito non è la risposta ai problemi che abbiamo di fronte». Il più scettico, il più critico con il presidente degli industriali calabresi è stato Enzo Macrì, che è da 35 anni in magistratura ed è sostituto per la Calabria della Procura nazionale antimafia da dodici anni. «Contro la 'ndrangheta, dice Macrì, bisogna ripartire con le indagini e con i processi...».
E da chi dipendono, secondo le leggi attuali, le indagini? Non è il magistrato, non sono i magistrati delle procure calabresi, e in prima fila i sostituti della Procura nazionale antimafia? E in quanto alla quantità, non ci possiamo lamentare. Basta elencare le più note, e quelle che hanno fatto più clamore: a partire dall'inchiesta «universale» promossa dall'allora procuratore di Palmi Agostino Cordova sulla massoneria e sulle massonerie nel mondo. Poi ci fu, collegata all'inchiesta di Cordova e da questa scaturita, alla vigilia delle elezioni politiche del '94, la richiesta di sequestro delle liste dei candidati e dei presidenti dei club di Forza Italia, richiesta avanzata dal sostituto procuratore Maria Grazia Omboni.
E poi ci fu l'incriminazione e l'arresto di due dozzine di uomini politici calabresi, accusati di complottare per organizzare «la rivolta del Sud» e la secessione della Calabria dall'Italia unita, e tutto finì nel nulla, ma ci rimise la vita il principe Gianfranco Alliata di Monreale.
Poi incriminarono Vittorio Sgarbi e Tiziana Maiolo, deputati di Forza Italia, con l'accusa di concorso esterno in associazione mafiosa, perché nei loro comizi in Calabria, dove furono candidati, si impegnarono che si sarebbero adoperati, una volta rieletti, ad abolire o a modificare «le leggi liberticide e incostituzionali» (è chiaro,sostennero i magistrati calabresi, che chiedono i voti ai boss della 'ndrangheta, e arrestarono i loro programmi elettorali).
Poi ci fu la così detta «operazione Olimpia», con l'emissione contemporanea di 500 ordini di cattura e l'innesco di decine e decine di processi che dopo dieci anni, ancora non sono arrivati a conclusione... E il capolavoro della magistratura calabrese, quello per cui passeranno alla Storia, simbolo imperituro della giustizia ingiusta, la persecuzione di Giacomo Mancini, il capo storico del socialismo calabrese, figlio del fondatore del partito socialista in Calabria, il padre già deputato nel '21 e già ministro nei primi governi del dopoguerra, e lui nove volte deputato e cinque volte ministro, e segretario nazionale del partito, e alla fine sindaco di Cosenza candidato del blocco delle sinistre ed eletto a furor di popolo, indagato e processato per mafia per otto anni, e anche condannato, e infine assolto con formula piena, ma intanto paralizzato da un ictus e lentamente avviato a morire: un delitto giudiziario... I «pentiti» per accusare Mancini furono reclutati nelle carceri di tutt'Italia con una specie di «circolare». Il procuratore di Reggio Calabria Salvatore Boemi inviò al colonnello della Dia Angelo Pellegrino una «nota di servizio», volgarmente detta «delega», così concepita: «Delego la S.V. ad assumere informazioni dai collaboratori di giustizia di cui alla nota acclusa (un elenco di ben 140 nomi e cognomi di “pentiti”) al fine di verificare se siano a conoscenza di circostanze relative a Mancini Giacomo». E con questo sistema portarono in aula ad accusare Mancini i due più famosi e sputtanati «pentiti» della 'ndrangheta: Giacomo Achille Lauro, detto dai magistrati, entusiasti di lui, «il Tucidite della 'ndrangheta» perché con le sue «rivelazioni» aveva riscrittto tutta la storia di Reggio Calabria e della regione, dai famosi moti del '70, quelli del «Boia chi molla», al deragliamento della Freccia del sud, all'assassinio del presidente delle Ferrovie Ludovici Ligato e del sostituto procuratore Antonio Scopelliti e a oltre 300 omicidi, in incredibile coacervo di balle e di falsità, in cambio delle quali Lauro, pilastro di tutti i processi per mafia in Calabria e implacabile accusatore di Mancini e di molti altri uomini politici, spillò allo Stato con il programma di protezione svariati miliardi che, come poi si scoprì, reinvestiva nel commercio della cocaina. Come l'altro «pentito» eccellente assoldato per accusare Mancini, che si chiama Franco Pino, e che aveva depositato a suo nome sulle banche di Cosenza, alla luce del sole, sette miliardi, e li prelevava tranquillamente, come il più stimato dei correntisti, per finanziare le attività criminali.
Su costoro il giudice che ha assolto Mancini ha scritto in sentenza: «Non esiste prova alcuna di riscontro esterno alle propalazioni, quasi tutte de relato, dei collaboratori di giustizia... Gli enunciati accusatori del pm relativamente alle presunte condotte di concorso esterno nel reato di associazione mafiosa di Mancini Giacomo si rivelano generici e indefiniti e comunque penalmente irrilevanti...». Tutto generico, indefinito e comunque penalmente irrilevante, dall'inchiesta di Cordova sulla massoneria alla inchiesta per mafia di Giacomo Mancini, questa è la «qualità» di dodici anni di indagini della magistratura calabrese, che secondo Macrì è venuto il momento di riprendere. E il programma era questo, così come fu enunciato a tutte lettere più di dieci anni fa dal sostituto procuratore Roberto Pennisi: «Dobbiamo azzerare la classe politica calabrese, e una nuova classe politica esisterà solo quando saranno cresciuti i bambini che ora fanno le scuole medie». Questo programma discendeva come corollario da un elaborato teorema: in Calabria è impossibile fare politica senza essere complici della 'ndrangheta e riceverne i voti, e la 'ndrangheta non è più solo 'ndrangheta, ma è anche massoneria e apparati dello Stato e istituzioni e giornali, e tutto insieme è intrecciato in una organizzazione centralizzata e piramidale, una Cupola che coordina le cosche mafiose e insidia e delegittima e cerca di bloccare la magistratura. Dopo dieci anni, il teorema è sempre lo stesso ed è alla base teorico-pratica della recente ordinanza dei magistrati di Catanzaro che ha dato luogo all'incriminazione di onorevoli ed ex onorevoli e persino di membri del governo in carica, e agli arresti di avvocati e anche di giornalisti. La procura di Catanzaro sostiene che tutti costoro hanno complottato per delegittimate i sei magistrati «storici» di Reggio Calabria, e tra essi ci sono il Boemi del processo a Mancini e il Pennisi del programma dell'azzeramento della classe politica, e il Macrì che irride alla lettera del presidente degli industriali a Ciampi e invita a «riprendere» le indagini del bel tempo passato: per risolvere la crisi della Calabria ormai in preda alla 'ndrangheta, basterà dopo aver azzerato la classe politica calabrese della prima Repubblica, azzerare anche quella della seconda Repubblica.


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