Quelle lettere antimoderne del giovane «Gattopardo»

P ochi racconti, qualche saggio, un solo romanzo. Limitata perché ben meditata l’opera di Giuseppe Tomasi di Lampedusa. Pregna infatti di suggestioni, richiami, simboli che oltrepassano la polemica antirisorgimentale e antimoderna, comoda casella per i critici d’avanguardia di cinquant’anni fa. Certo, l’autore siciliano non era un progressista, piuttosto si affidava ad una tradizione remota che emetteva gli ultimi bagliori nella vecchia aristocrazia. Proprio per quello c’è ben altro che la politica nelle pagine de Il Gattopardo. A proposito ci illumina Salvatore Nigro con Il Principe fulvo (Sellerio, pagg. 152, euro 13), partendo dalle lettere che Tomasi di Lampedusa spediva intorno ai trent’anni da Londra e da Parigi. Scriveva ai cugini, bizzarri artisti fissati con gnomi e fantasmi, adatti a ricevere «bozzetti letterari improntati all’estro ironico e umoristico di Chesterton», secondo Nigro. Altro nome chiave è Dickens, dato che avrebbe voluto comporre una specie di Circolo Pickwick siculo. «La dismisura è la misura della scrittura letteraria del Lampedusa trentenne», non solo nel senso chestertoniano, anche nella scorrettezza politica. Siamo nel ’25, il siciliano scrive che il fascismo fa «nettezza urbana per eliminare la spazzatura», si entusiasma per «la strigliata ad Amendola» (strigliata che fu mortale). Per il giovane Lampedusa la «pederastia è sintomo di bolscevismo». Profetizza un fosco futuro in cui «un uomo che avrà commercio carnale con una donna sarà un pezzo da museo». Lettore di Papini, ne apprezza i tratti più antisemiti, anche se antisemita non fu nella vita, anzi proprio le leggi razziali del ’38 lo trasformarono in nemico del fascismo, nel nome di più antiche virtù. Non per nulla Don Fabrizio Salina, il Gattopardo, muore proprio mentre nasce Mussolini; scompaiono i leoni e arrivano «gli sciacalletti, le iene».
Tomasi di Lampedusa è un po’ Don Fabrizio, anche lui appartiene «ad una generazione disgraziata a cavallo fra i vecchi tempi ed i nuovi, e che si trova a disagio in tutti e due».

Ha nostalgia delle dimore barocche con «volte istoriate dalle familiari divinità dell’Olimpo e dalle congeniali favole degli antichi eroi», sa che il neoclassicismo prima e il modernismo dopo dei borghesi trasformeranno tutto in museo. Oppure getteranno tutto dalla finestra, come fa la figlia di Don Fabrizio ormai anziana con la pelliccia tarlata del cane Bendicò, compagno di caccia del Principe e personaggio chiave del romanzo.

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