La questione meridionale rimane irrisolta

La questione meridionale rimane irrisolta

Marcello D'Orta

Mentre il Parlamento diceva sì alla devolution (ma poi perché chiamarla così? vivaddio, siamo in Italia, e diciamo allora devoluzione!), la commissione Affari Costituzionali del Senato approvava un disegno di legge con il quale «Fratelli d’Italia» diventava l’inno ufficiale. Questo provvedimento sembra quasi la risposta dello Stato alla riforma federalista, che «si appresta a cancellare (...) il senso stesso dello Stato e dell’Italia» (Claudio Magris).
Se tuttavia il referendum confermativo farà passare questa riforma, ho paura che il Sud ne uscirà spennato, finendo col somigliare a uno di quei polli sgozzati che ogni giorno la televisione ci mostra a proposito dell’influenza aviaria.
Mentre al Nord solo il 9% della popolazione è considerata povera, al Sud sfiora il 27%. In concreto, un meridionale su 4 vive sotto il livello di sussistenza. Gli effetti della devoluzione potrebbero essere di innalzare tale quota, e questo significherebbe aumento dell’illegalità e della delinquenza (se si va di questo passo, dalle mie parti si finirà col camminare armati come Robinson Crusoe).
Parlo di povertà del Sud, e non posso non ricordare che alla vigilia dell’Unità d’Italia, circolavano nella Penisola 667 milioni di ducati, così divisi: 22 in Lombardia, nel Parmense, nel Modenese e a Venezia, 85 in Toscana, 90 negli Stati pontifici, 27 nel Regno sardo-piemontese, e 443 nel Regno delle Due Sicilie. Dopo l’impresa di Garibaldi, la quasi totalità della ricchezza «napoletana» andò al Piemonte, e Camillo Benso Conte di Cavour poté saldare i suoi enormi debiti con i Rothschild. Il Regno borbonico fu depredato di quasi tutte le sue sostanze (il Banco di Napoli aveva una riserva aurea superiore quasi quattro volte a quelle di tutte le altre banche italiane messe assieme) in modo da consentire ai piemontesi il monopolio della spesa pubblica e quindi il successivo sviluppo delle industrie e dello status socio-economico.
Con Londra, Parigi e Vienna, Napoli era una delle più importanti città europee. Il suo sviluppo industriale era il 3° in Europa, e la sua flotta la più potente del continente dopo quella inglese. A seguito dello spaventoso e improvviso impoverimento, si determinò un fenomeno nuovo per il Sud: l’emigrazione. A migliaia, a milioni lasciarono le proprie terre per andare a cercar fortuna Oltreoceano: «Partono ’e bastimente».
Quando il grande meridionalista Francesco Saverio Nitti pubblicò un libro intitolato «Napoli e la questione meridionale» (1904) denunciando la povertà del Sud d’Italia, il capo del governo, Giovanni Giolitti, lo incaricò di tradurre i contenuti del volume in una legge per Napoli. Legge che fu presto promulgata e attuata. Quattro anni dopo prendevano corpo l’Ente Volturno e l’Ilva, cioè gli strumenti che avrebbero avviato l’industrializzazione della città e la sua ripresa economica.


Cantare «Fratelli d’Italia» allo stadio non basta per considerarci italiani: sono le leggi che si fanno in Parlamento a stabilire se davvero questo Paese è uno «d’armi, di lingua, d’altare, di memorie» e quel che segue.
E a me pare che la devoluzione sia l’anti-inno di Mameli.

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