Quirinale

Quel giorno in cui un comunista divenne capo dello Stato

Comunisti al potere, è il caso di Giorgio Napolitano. 17 anni fa l’ex esponente del PCI veniva eletto presidente della Repubblica, il primo così a sinistra

10 maggio 2006, il giorno in cui un comunista divenne capo dello Stato

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10 maggio 2006, il giorno in cui un comunista divenne capo dello Stato

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Comunisti al potere, è il caso di Giorgio Napolitano. 17 anni fa l’ex esponente del PCI veniva eletto presidente della Repubblica, il primo così a sinistra. Il primo ad essere dichiaratamente “compagno”. Di quelli col pugno alzato e falce e martello per intenderci. Una figura divisiva e, soprattutto, “ombrosa”. Il tempo passa, è vero, ma ancora oggi il nome di Giorgio Napolitano divide la politica e gli italiani. Era il 10 maggio del 2006 e, alla quarta votazione, con 543 voti su 990 votanti dei 1009 aventi diritto, l’Aula di Montecitorio riunita in seduta comune acclamava (in parte) il suo nome. Ma l’essere comunista non è stato il suo solo ed unico primato. È riconosciuto come il Presidente della repubblica più longevo e, soprattutto, il primo ad essere rieletto Capo dello Stato. Il 20 aprile del 2013, infatti, la politica in crisi e, soprattutto, senza un nome decisivo e unitario ha deciso di richiamarlo al Colle, nonostante lui (almeno apparentemente) non ne voleva che sapere di tornare al Palazzo del Quirinale. Un po’ come la rielezione di Sergio Mattarella, la politica che chiede aiuto, soccorso. In quel caso fu Pierluigi Bersani a sbrogliare la matassa. Non ci riuscì. Nessuno degli schieramenti politici presenti in Parlamento (centrodestra, centrosinistra, Movimento 5 Stelle) aveva i numeri per governare, figuriamoci per nominare un garante. Il capo dello Stato.

Il discorso del "re"

Ma torniamo al primo mandato di Giorgio Napolitano, al 2006, e al discorso di insediamento pronunciato nel Palazzo addobbato a festa. Un discorso chiaro e lontano dall’imparzialità che spetta al garante della Costituzione, al Presidente della Repubblica. “Ci si può – io credo – ritrovare, superando vecchie, laceranti divisioni, nel riconoscimento del significato e del decisivo apporto della Resistenza, pur senza ignorare zone d'ombra, eccessi e aberrazioni. Ci si può ritrovare, senza riaprire le ferite del passato, nel rispetto di tutte le vittime e nell'omaggio non rituale alla liberazione dal nazifascismo come riconquista dell'indipendenza e della dignità della Patria italiana, memoria condivisa come premessa di una comune identità nazionale che abbia il suo fondamento nei valori della Costituzione. Il richiamo a quei valori trae forza della loro vitalità, che resiste, intatta, ad ogni controversia. Parlo di quei principi fondamentali che scolpirono nei primi articoli della Carta costituzionale il volto della Repubblica: principi, valori, indirizzi che, scritti ieri, sono aperti a raccogliere, oggi, nuove realtà e nuove istanze”.

Da molti è stato definito “Re Giorgio” per il suo modo di fare “politica”. Ultimatum, pretese e zero compromesso. Più volte, infatti, è entrato a gamba tesa nelle decisioni dei governi e del Parlamento. Interferenze, pressioni e scelte (spesso obbligate) in nome del bene comune, dello Stato. Ma ne siamo sicuri?

Il caso Berlusconi e le interferenze

Era l’autunno del 2011 quando il governo Berlusconi IV fu costretto a rimettere il mandato nelle mani del Presidente. L’Italia sotto l’attacco degli speculatori internazionali e con lo spread alle stelle convinse Napolitano ad intervenire pubblicamente. Senza scrupoli, senza pensarci due volte. A spingersi oltre. Le ripercussioni sui tassi di interesse erano gravi e in ballo c’era tanto. Troppo per “Re Giorgio” tanto da mettere in discussione la democrazia e un governo scelto dagli elettori. Tanto da imporsi su Berlusconi e chiedergli le chiavi di Palazzo Chigi subito dopo l’approvazione della legge di bilancio. Bastò solo un giorno a Napolitano per nominare il successore del leader di Forza Italia: il professor Mario Monti (oggi senatore a vita). Una mossa che tutti videro come la prova del disegno di dare vita a un governo tecnico. E così fu. Napolitano affidò l’incarico di governo a Mario Monti. Dopo qualche anno, il centrodestra, infatti, accusò Giorgio Napolitano di aver pilotato la crisi, allargando troppo la sua influenza sulla vita politica del Paese, di fatto andando oltre il dettato costituzionale.

Nonostante tutto Giorgio Napolitano è rimasto sul colle più alto di Roma per nove anni passando da Romano Prodi a Silvio Berlusconi, da Mario Monti a Enrico Letta per finire con Matteo Renzi. Già a 28 anni entrò dentro i Palazzi del potere. Da Montecitorio a Bruxelles fino a Palazzo Madama. Dopo la sua rielezione nel 2013, il Presidente è rimasto in carica per due anni. Il 14 gennaio 2015 Napolitano rassegnò le proprie dimissioni, per problemi legati all'età avanzata, dopo averle anticipate nel suo discorso di fine anno agli italiani.

Per molti un sospiro di sollievo.

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