Cultura e Spettacoli

IL RACCONTO - Vita di uno scrittore «fatto» e finito

Dietro il successo di Pino Costanzi detto «Picobaud» ci sono storie di droga e di eccessi. Frutto di un'esistenza «maledetta» o del marketing editoriale? Soltanto leggendo il suo terzo libro potremo rispondere

In canottiera e mutande davanti allo specchio del bagno, Pino Costanzi declamò con voce stentorea, facendo il verso ai toni grotteschi e inquietanti dei vecchi speaker dell'Istituto Luce:
«Ma la cosa più sorprendente è che, dai tormenti di cui l'Autore ci ha reso partecipi (stavamo per scrivere "complici"...), parlandone nel primo capitolo, esce, alla fine, una scrittura pacificata, limpida, composta, cilestrina. Quasi che, dopo un lungo e faticoso viaggio in cui a fargli compagnia sono stati i suoi e gli altrui demoni, egli giungesse, da naufrago, su un'isola insperata e accogliente. L'isola che, se avesse un nome, si chiamerebbe "Isola della Serenità"».
Era l'ultimo paragrafo di una recensione al suo terzo libro, «Primo interstizio a destra», fra pochi giorni in libreria. L'autore della recensione aveva ottenuto in esclusiva le bozze.
Pino Costanzi, terminata la breve ma intensa recita, buttò il giornale sulla lavatrice e si guardò nuovamente allo specchio. Sorrideva.
«Così mi piace», mormorò. "Ma cilestrina", pensò, "che vuol dire? Devo controllare sul dizionario".
Fu proprio in quel momento, accarezzandosi le guance ispide, che prese la solenne decisione: nonostante il parere contrario di sua madre, si sarebbe lasciato crescere la barba. A 37 anni, poteva ben farlo, no? Non era più un ragazzino.
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Uscì. Non ne aveva la minima voglia, ma uscì. L'aspettavano in due, il suo editore e il suo editor. A quest'ultimo, rispetto al primo, non mancava soltanto una «e», ma molto altro: i soldi necessari per sfilare da sotto le chiappe ad Alfredo Gustosi (così si chiamava l'editore) tutto l'ambaradan, con la complicità d'un industriale il quale aveva promesso che, nel caso in cui...
Ma lasciamo stare, è una storia troppo complessa da raccontare. Dicevamo che l'aspettavano in due, l'editore e l'editor. L'appuntamento era in un locale di semiperiferia, per l'happy hour. Pino Costanzi abitava dall'altra parte della città, ma non se la sentì di prendere la macchina, temeva che gli avrebbero fregato il posto sotto casa, così comodo e rassicurante. Quindi ci andò in metropolitana.
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Dentro e fuori dal locale, un bordello di gente. Musica ossessiva e sparata al massimo con voci negroidi intervallate da sibili e percussioni assordanti. Un caldo bestia. Le schiene delle belle fanciulle seminude (si era in agosto) brillavano di sudore. Gli occhi dei ragazzi, o già spenti dall'alcool, alle cinque e mezza del pomeriggio, o innaturalmente sgranati a causa di qualche pasticca.
Raggiunto a fatica il bancone, Pino Costanzi fece l'ordinazione:
«Mojito».
Avrebbe preferito una birra, ma tutti prendevano mojito, o caipirinha, o caipiroska, quindi...
Uno dei baristi, con movimenti fulminei, glielo preparò in pochi secondi. Pino Costanzi agguantò il bicchiere, pronto a fendere di nuovo la folla per andare a sedersi sul gradino della pasticceria chiusa per ferie lì accanto, ma...
«Pico, Pico...», sentì urlare. «Siamo qui Pico!!!».
Erano i due, Alfredo Gustosi e Gianna Forti (sì perché editor non si declina al femminile, e poi la Gianna non era mica una donna, bensì una macchina, fredda, meccanica, senza cuore).
«Pico, è una festa vederti!», esclamò il Gustosi spalancando un sorrisone grottesco e dando i tre bacini di prammatica allo scrittore, mentre Gianna s'accendeva la trentesima sigaretta della giornata e fissava Pino Costanzi con occhi che avevano il colore e il calore del ghiaccio.
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L'happy hour era stato più che altro una formalità, soltanto il pretesto per incontrarsi. Non avevano parlato di lavoro, ma delle vacanze. Le solite cose, un po' borghesi, in fondo, anche se nessuno dei tre voleva ammetterlo: Costa Smeralda per Gustosi, Scandinavia ovviamente per la Forti, mentre Pino Costanzi... Be' Pino Costanzi in realtà era stato due settimane in montagna, dalle parti di Selvino, con la madre, il fratello minore Alberto e la di lui moglie Giannina, ma preferì raccontare qualcosa di molto vago a proposito di Amsterdam e New York...
Poi ci fu la cena. E lì i nodi, anzi, «il» nodo, venne al pettine. Ma prima di dire di quale nodo si trattasse, occorre che il lettore conosca l'antefatto, cioè la carriera, breve e intensa, di Pino Costanzi.
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Appena laureatosi in Scienze politiche nel '94, con una tesi su Malcolm X che a molti, ma non al relatore e a tutta la commissione (che gli diede 110 con lode), appariva fuori tempo, Pino Costanzi aveva due strade davanti a sé. O impiegarsi nell'aziendina del padre, materiali per imballaggio e roba del genere. Oppure tentare di sfondare con la letteratura, il suo pallino fin dai tempi delle medie inferiori, quando vergava versi tremebondi sulla prof d'inglese, grazie alla quale aveva capito la differenza che corre tra le eroine dei fumetti pornografici e una donna in carne (e che carne...) e ossa.
Scegliere era difficile. Così, non scelse: prese l'uno e l'altro. Il lavoro arrivò da solo, naturalmente. Quanto al successo editoriale, si materializzò con un colpo di culo memorabile. Accadde infatti che nel '96 Pino Costanzi venne rapito per sbaglio al posto di un suo amico, figlio di un padre il fatturato del quale assommava a dieci volte quello di Costanzi senior. E accadde che, dopo una sola settimana di prigionia (se vogliamo chiamare prigionia gli arresti domiciliari in una malga dell'Alto Adige, in giugno), Pino venne rilasciato con tante scuse dai delinquenti. Cogliendo la palla al balzo, il ragazzo buttò giù un libretto, «In fondo all'alto», edito dal Gustosi, che bruciò ottantamila copie in meno di un mese, venne più volte ristampato e, insomma, fu a lungo nella top ten della narrativa italiana.
Poi, fra l'esordio e il secondo libro, quello più difficile, come sanno bene i giovani scrittori baciati troppo presto dalla fortuna e dal mercato, passarono cinque anni. Durante i quali Pino, confermandosi un tipo sveglio, mise benissimo a frutto l'exploit. Non soltanto collaborando alla sceneggiatura dell'immancabile film tratto dalla sua disavventura, ma anche e soprattutto creandosi, con la regia proprio del Gustosi e della Forte, l'appetitosa, per giornali e tv, fama di «maledetto». Certo, l'erba gli piaceva, la birra anche e sulle liceali facevano presa il suo ciuffo biondo e la sua aria svanita. Ma niente a che vedere con le storie di eroina, depressione e bisessualità sadomasochista seminate qua e là come promozione del personaggio. Pino sopportò persino le scenate del papà e le lacrime della mamma, pur di diventare «Picobaud», cioè Pino + Costanzi + Rimbaud, ovvero «il maudit di Porta Vittoria». E, una volta spezzato l'ormai esilissimo cordone ombelicale che lo teneva legato alla famiglia, se ne uscì con il secondo libro. La raccolta di racconti «Mukka pastikka», pubblicata sempre dal Gustosi, e fatta riscrivere dalla Forte a un bravissimo ma troppo umile redattore, uscì nel 2001. Risultato: 200mila copie e vittoria al premio «Battilocchi Fortunati».
E il terzo romanzo? si chiederà il lettore. Per il terzo romanzo, «Primo interstizio a destra», in uscita, come dicevamo, fra pochi giorni, si contavano già alcune migliaia di prenotazioni. Manco fosse un super best seller annunciato della Rowling o di Grisham. Pare si tratti di un'autobiografia. Non sappiamo altro. Sappiamo, invece, il contenuto del colloquio fra Pino Costanzi, Alfredo Gustosi e Gianna Forte, quella sera a cena.
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Andò così. Gustosi e la Forte imputarono a Pico, nell'ordine: 1) la fidanzata Paola, una bravissima ragazza che fa la cameriera in una pensioncina bergamasca e in compagnia della quale il «loro» autore era stato fotografato in pizzeria da un paparazzo; 2) la decisione di devolvere il 10 per cento della sua quota-vendite del libro alla Caritas; 3) la riconciliazione con la famiglia; 4) l'intervista concessa a una rivista cattolica tedesca, nella quale si parla della fede e della mancanza di valori che indebolisce la società moderna; 5) l'abbigliamento con cui si era presentato alla cena: giacca, cravatta e jeans intonsi.
«Ragazzi, sapete che vi dico?», fu la difesa di Pico, alias Picoud, alias "il maudit di Porta Vittoria", «ho deciso di svoltare. Di diventare uno scrittore vero. Sono stanco di fare il fenomeno da baraccone. Se non vi vado bene così... amen. Per il prossimo libro (ci sto lavorando da tre anni), mi trovo un'altra casa editrice. E con questo tolgo il disturbo... Ah, una domanda.

Che significa "cilestrina"?».

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