Controstorie

Rahmon Emomali il satrapo eterno che sceglie i "rivali"

Vinte ancora le elezioni con il 90% contro un'opposizione inesistente Il presidente della repubblica ex Urss ora è il leader mondiale più longevo

Rahmon Emomali il satrapo eterno che sceglie i "rivali"

Osvaldo Spadaro

F are meglio dell'84 per cento di voti di sette anni fa era difficile. Eppure Rahmon Emomali, presidente del Tagikistan che domenica scorsa si ricandidava per quinta volta alla guida del suo Paese, ce l'ha fatta. Ha ottenuto il 90,92 dei consensi e per altri sette anni siederà sulla poltrona presidenziale. Certo nelle elezioni del 1999 aveva ottenuto il 97,6 per cento dei consensi, ma quello era un altro secolo. Non che anche questa volta ci fossero molti dubbi, però le repubbliche ex sovietiche dell'Asia Centrale qualche rara volta riservano sorprese, basta vedere quel che è successo due settimane fa nel vicino Kirghizistan. Invece a Dushanbe è andato tutto secondo programmi.

Del resto gli avversari erano quattro tirapiedi, perché chiamarli contendenti davvero non si può. Solo il candidato del Partito Agrario, Rustam Latifzoda, ha superato il 3 per cento dei voti. Ad ogni modo, se i candidati fossero stati possibili minacce al suo potere assoluto sarebbero già finiti dietro le sbarre da un pezzo. Esattamente come è successo in questi anni pre-elettorali ai veri oppositori. Nel 2015 Rahmon Emomali ha bandito il Partito della Rinascita islamica, un movimento moderato che costituiva la minaccia maggiore. Con l'appoggio della Corte Suprema la scusa è stata facile da costruire: costituiscono un gruppo terroristico. E così al leader, Muhiddin Kabiri, non è rimasto che riparare all'estero mentre altri quadri del partito venivano arrestati e alcuni sono morti in prigione in misteriose rivolte carcerarie. Peggio è andata Umarali Quvvatov, a capo di un movimento riformista chiamato Gruppo 24 dichiarato fuorilegge: lui è scappato a Istanbul, dove però è stato ucciso in circostanze altrettanto misteriose. Altri gruppo di oppositori come l'Alleanza nazionale del Tagikistan sono stati dichiarati «gruppi terroristici» più di recente e dunque banditi. L'unico partito d'opposizione rimasto, il Partito sociale democratico, ha invitato al boicottaggio.

Ma alla fine a votare è andato l'84,5 per cento della popolazione. Così, con il beneplacito degli osservatori inviati dall'Unione Europea, secondo cui elezioni si sono svolte in modo «ordinato e pacifico» nonostante problemi aperti per quanto riguarda la pluralità politica e la libertà di media, Rahmon Emomali è nuovamente presidente della piccola repubblica centroasiatica. Vittoria che fa di lui il leader mondiale da più tempo al potere: ben 27 anni e dieci mesi. Uno in più di un altro leader ex sovietico, il contestato presidente bielorusso Alexander Lukashenko, in sella da soli 26 anni. Del resto il presidente tagiko si era legalmente aperto la strada alla rielezione nel 2016 quando aveva fatto votare in Parlamento una legge che cancellava il limite di quattro mandati presidenziali, dandogli la possibilità di concorre alle elezioni tutte le volte che voleva e assegnandoli anche il titolo di «Leader della Nazione».

E dire che di recente c'erano state manovre che avevano fatto pensare a un passo di lato del 64enne presidente. Nel 2018 la Costituzione era stata emendata per abbassare l'età minima necessaria per venir eletti alla presidenza da 35 a 30 anni. A tutti gli osservatori era sembrata una manovra per preparare la successione dinastica. Il prescelto sarebbe Rustam Emomali, primogenito del presidente e da due anni sindaco della capitale Dushanbe. Rustam, che ha 31 anni, lo scorso aprile è diventato anche presidente del Senato, carica che in caso di morte improvvisa del padre - gli assicurerebbe la gestione ad interim del Paese. Che Rustam sia il prescelto lo dice la sua carriera: a 25 anni era già a capo dell'Agenzia nazionale delle dogane, generale dell'esercito e in seguito, prima di iniziare la carriera politica, era stato scelto come presidente della Commissione anticorruzione. Una scelta in pieno stile post sovietico, considerato che il Tagikistan - la più povera tre le 15 repubbliche ex sovietiche è agli ultimi posti nella classifica mondiale della corruzione stilata ogni anno da Transparency International.

Del resto da quando il 19 novembre 1992 questo ex-elettricista della regione di Danghara divenuto capo di una fattoria collettiva è stato eletto presidente dell'allora Soviet Supremo ha fatto di tutto per accrescere il potere suo, della sua famiglia e del suo ristretto circolo. A guardarlo nelle fotografie ufficiali mentre taglia nastri e saluta il popolo Rahmon Emomali assomiglia a quello che è: un autocrate di scuola sovietica, grigio come i completi che porta, nonostante tenti di ravvivarli con cravatte rosse o viola. Nel suo ruolo di leader ha piegato alla sua volontà la Talco, la gigantesca fabbrica di alluminio di epoca sovietica che da sola vale oltre un terzo della malandata economia e metà delle esportazioni, i cui fondi puntualmente finiscono in conti alle Isole Vergini Britanniche riconducibili alla sua famiglia.

In tutto questo il reddito pro capite dei tagiki è di poco superiore ai 3mila euro e l'emergenza Covid ha peggiorato la situazione. Un terzo dell'economia è legato alle rimesse dei lavoratori emigrati in Russia, circa il 20 per cento dei 9 milioni di abitanti. Senza questa iniezione di denaro la maggioranza delle famiglie non saprebbe come far fronte alle esigenze quotidiane e infatti la situazione peggiora di mese in mese. A poco serve l'avanzamento dei lavori per la realizzazione della colossale diga di Rogun che sbarra il fiume Amur Darya non distante dal confine afghano. Quando sarà completata sarà la più alta del mondo, toccando i 335 metri. Il progetto ha un valore di 3,9 miliardi ed è affidato in parte all'italiana Salini Impregilo. Una volta completato raddoppierà la capacità di produzione di energia elettrica del Paese, che così si troverà a esportare energia in tutta la regione.

Intanto a Dushanbe i tagli di corrente sono la norma, ma a quanto pare non hanno influito sul risultato delle elezioni.

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