Quel "Re Lear" di Lavia, dramma di potere e follia

La tragedia di un padre che, di fronte al cadavere della figlia, urla al pubblico: "Siete uomini o pietre?"

Quel "Re Lear" di Lavia, dramma di potere e follia
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Mentre Gabriele Lavia stava lavorando al Lungo viaggio verso la notte che era anche un viaggio verso la follia, quello della moglie di James Tyrone, interpretata da Federica Di Martino, una serie di circostanze stravolge i suoi piani, perché gli viene proposto di inaugurare il Teatro Argentina con Re Lear. Non potendo farsi scappare l'occasione, Lavia decide di accantonare il dramma familiare dei Tyrone, per affrontare la tragedia familiare di Re Lear, quella di un padre disarcionato dal potere dalle due figlie che dicevano di amarlo e lo condurranno alla follia. Lavia, vedendosi catapultato nel genere tragico, ben sa che la sua essenza è meno dialettica, proprio perché al tragico non interessa la storia di tutti i giorni, tipica del genere drammatico, bensì l'essenza della Storia, quella che appartiene all'Essere. È, inoltre, ben consapevole che mentre l'eroe drammatico cerca di capire, quello tragico agisce. Molto spesso, in forma irrazionale.

Pur non avendo pensato di portarlo in scena, da tempo Lavia era ossessionato dal personaggio di Lear, oltre che dalla presenza di Strehler perché diceva che se lo avesse messo in scena, avrebbe dovuto essere diverso da quello del maestro che nel 1972 lo diresse nel personaggio di Edgar, l'alter ego di Lear. Ossessionato da Strehler, Lavia non ricorda l'edizione di Ronconi perché, tanto era poetica quella del primo, quanto era razionale quella del secondo che la considerava tragedia dell'eccesso: di sofferenza, d'ingiustizia, di violenza, di follia. Eccesso ben evidenziato nella scena di Gae Aulenti formata da un "diaframma" in continua mutazione, un luogo decostruito. Niente di tutto questo nel Re Lear di Lavia, in scena allo Strehler da martedì al 9 novembre su un palcoscenico sghembo, perché sghemba è la vita. Per essere "diverso", Lavia ha puntato su alcune categorie: la rinuncia, la vecchiaia, la follia. Così, il suo Lear è diventato il dramma della rinuncia, la stessa che aveva caratterizzato il personaggio di James Tyson: rinuncia che, però, è ben diversa dall'indifferenza, trattandosi di una consapevole rinuncia al potere e agli affetti, benché fosse convinto di avere dato tutto alle figlie. Che gli avevano risposto "Era ora!". Ritorna l'analogia col dramma di 'O Neill che consiste nella fatica di tenere a bada una famiglia complicata: fatica tripla per Re Lear, essendo tre le figlie: Goneril, interpretata con sofferta cattiveria da Federica Di Martino, Regan con Silvia Siravo e Cordelia con Eleonora Bernazza. Fatica dovuta anche alla vecchiaia che, però, è ben diversa dall'età avanzata o da una forma di decadimento: perché Lear è un vecchio combattente che non ha voluto accettare l'esclusione dal potere, causa della depressione che lo ha portato alla follia. Per Lavia, la vecchiaia è uno spazio di riflessione, di accettazione del tempo, oltre che di una "navigazione lenta" (De Senectute, di Cicerone), ma anche di crescita spirituale, di accettazione di quei venti che soffiano sulla sua angoscia.

Così

Lavia alterna la tragedia al dramma di un padre disperato che col corpo morto di Cordelia tra le braccia, urla al pubblico: "Siete uomini o pietre?". Aveva ragione Goethe quando diceva che "Ogni vecchio è sempre un Re Lear".

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