RomaPassata la sbornia di entusiasmo per la «spallata» affibbiata a Berlusconi con la vittoria referendaria, in casa Pd si iniziano a fare i conti con le conseguenze concrete della consultazione. E sull’acqua «bene pubblico» per gli amministratori locali del Pd son già dolori. Tanto che si vuol cercare una soluzione legislativa che rimetta ordine nel caos creato dai due quesiti idrici: «È necessario mettere riparo in fretta ai vuoti normativi che si sono aperti», dice Sergio D’Antoni, responsabile dell’organizzazione e delle politiche del Pd sul territorio. E per farlo, ammette, occorre trovare un’intesa con la maggioranza di centrodestra, senza i cui voti nessuna legge può passare. Dal Pdl però si reagisce con cautela: «Certo bisognerà trattare, ma come facciamo a fidarci di un Bersani che fino ad un anno fa propagandava le privatizzazioni dei servizi locali e poi si è buttato sul carro referendario?».
Per capire la portata del problema che ora si pone agli amministratori (e ai cittadini che aprono i rubinetti), si prenda il caso Hera, la holding bolognese quotata in Borsa che gestisce i servizi idrici, ambientali ed energetici in Emilia Romagna. Un colosso, il secondo gestore delle acque in Italia, e legato a doppio filo ai governi locali della regione più «rossa» d’Italia: per Hera, il referendum è stato un terremoto, e sono i cittadini che rischiano di pagarne il conto salato. Il 13 giugno la società ha annunciato che non firmerà più la convenzione con gli enti locali che prevedeva investimenti per 70 milioni di euro sulla rete idrica. In Borsa ha perso circa il 10 per cento del suo valore, bruciando circa 187 milioni di capitalizzazione: per il Comune di Bologna (appena riconquistato dal Pd), che ha il 13% delle quote, si tratta di una perdita secca di 25 milioni e mezzo; 35 i milioni persi dai comuni della provincia. Le conseguenze catastrofiche del sì ai due quesiti vengono spiegate, in una intervista al Corriere di Bologna, dall’assessore provinciale all’Ambiente della Provincia di Bologna, Emanuele Burgin, che non a caso era schierato per il no: «Serve una nuova legge nazionale, perché siamo in una situazione di stallo. Se a Bologna si fermano 70 milioni di investimenti, con tutte le conseguenze che si possono immaginare anche in termini economici e di occupazione, il dato nazionale è pari a 6 miliardi». Difficile però pensare che governo e Parlamento rispondano a questa esigenza in tempi brevi. Quindi? «Quindi — dice Burgin — non sappiamo come fare. I soldi per fare investimenti gli enti locali non li hanno. Rispettiamo la volontà espressa dal referendum, che ha abrogato una norma introdotta dal governo Prodi, ma bisogna dire con altrettanta onestà che il ricorso ai privati era l’unico modo per finanziare gli investimenti».
Erasmo D’Angelis, ex consigliere regionale toscano del Pd e oggi presidente di Publiacqua, la società idrica locale, solleva un altro problema potenzialmente esplosivo: «Da oggi, dopo l’abrogazione del 7%, che bollette mandiamo ai nostri cittadini? Formalmente dovrebbero valere le vecchie tariffe, ma mi aspetto che se non le riducessimo saremmo presto sommersi da una valanga di ricorsi dei consumatori». E infatti il Codacons già minaccia: «Le bollette devono scendere immediatamente del sette per cento. Siamo pronti ad una class action nel caso i gestori non applichino immediatamente l’esito referendario». Incalza De Angelis: «Dove li prendiamo adesso i soldi per le infrastrutture? Ce li daranno i sindaci? Publiacqua ha aperto un cantiere da 71 milioni di euro a Firenze, per dare una fogna a mezza città.
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