"La regola di noi fisici: premiare chi sbaglia"

È l'uomo che ha catturato il bosone di Higgs: "Se non ci fosse sparirebbe il mondo così come lo conosciamo. Noi italiani maghi dell'imprevisto: siamo abituati a stare nel caos"

"La regola di noi fisici: premiare chi sbaglia"

di Eleonora BarbieriGuido Tonelli è «l'uomo del bosone». Quello con il caschetto giallo, giù nei sotterranei del Cern, dove ha guidato l'esperimento «Cms» per dare la caccia alla «primula rossa della fisica delle particelle». Cioè il bosone di Higgs. A capo dell'altro esperimento, «Atlas», c'era un'altra connazionale, Fabiola Gianotti (ora direttore del Cern): amici e rivali, due italiani ai vertici della ricerca che ha portato a individuare il bosone nel dicembre del 2011 e al Nobel per la fisica per i due teorizzatori della sua esistenza, François Englert e Peter Higgs, come Tonelli racconta nel suo libro La nascita imperfetta delle cose, da poco pubblicato da Rizzoli. Un'avventura cominciata sulle Apuane e proseguita a Spezia («mio padre era ferroviere, ogni cinque-sei anni cambiavamo un paese qui intorno, fino a che ci siamo trasferiti»), dove ora si trova: sta facendo la spola tra Pisa, dove insegna all'università e Ginevra, o meglio Ferney-Voltaire, dove vive con la moglie Luciana. E ora è in un bar di fronte al suo vecchio liceo classico, il Costa.

Come si passa dal classico a fisica?

«Mi piaceva studiare. L'insegnante di fisica era una tragedia, però quello di filosofia e storia era bravissimo: mi ha trasmesso la passione di chiedermi il perché delle cose. Poi, in realtà, avrei voluto iscrivermi a architettura a Firenze».

E invece?

«Un mio amico mi disse che c'era un sacco di lavoro da fare. Così scelsi fisica a Pisa: erano quattro anni e venti esami...».

Come andò?

«Il primo anno mi sentivo il più stupido, per me era arabo spinto. Però la formazione logica mi è servita a conquistare gli strumenti che mi mancavano. Ci sono stati anche un paio di prof, di quelli che ti illuminano un mondo. E poi tanta passione, oltre ad alcuni episodi, anche casuali, come la borsa di studio vinta a Pisa, quando non ci speravo più».

E poi è arrivato al Cern?

«A 27 anni l'ho visitato per la prima volta, era meraviglioso. Poi sono stato in America per qualche anno, al Fermilab di Chicago. Un'esperienza molto importante».

Che cosa le è rimasto?

«Negli Stati Uniti danno molta fiducia ai giovani. Magari fallisci, ma ti danno una chance di dimostrare quello che sei. Così, quando sono tornato ero pronto a prendermi delle responsabilità: erano gli anni in cui è cominciata l'avventura di Lhc».

Si è trasferito subito a Ginevra?

«No, fino al 2006 facevo avanti e indietro fra il Cern e Pisa. Poi ho avuto la responsabilità di Cms, questo tracciatore che sembrava impossibile da costruire, e mi sono dovuto stabilire lì: dovevo dirigere l'intero progetto, ventiquattro ore al giorno».

A capo dei due esperimenti eravate in due italiani...

«Un miracolo. Fabiola e io siamo amici da tempo. Fra i due gruppi c'era una competizione dura, ma onesta. Sono stati anni fantastici, di paure e soddisfazioni incredibili».

Paure?

«La paura di sbagliare è la nostra compagna più costante. Certo nel lavoro dobbiamo essere freddi, razionali, ma siamo esseri umani e viviamo emozioni che sono come delle montagne russe, sei sempre sul baratro. Basta un dettaglio e puoi fallire e trascinare nel disastro anche i tuoi collaboratori».

I due gruppi, «Cms» e «Atlas» hanno visto i segnali dell'esistenza del bosone nello stesso momento. Come lo spiega?

«Un miracolo. Più ci ripenso, più mi meraviglia. Certo abbiamo spinto al massimo, e magari la fortuna ci ha aiutato. La prima volta che ho capito che si trattava di lui, del bosone, era il giorno del mio compleanno».Una coincidenza incredibile.«E poi, quando abbiamo dato il primo annuncio, era appena morto il mio papà. Il momento di soddisfazione massima accompagnato dalla massima disperazione. Pochi giorni dopo è nato il mio nipotino. Una lezione».

Alla fine siete finiti a Stoccolma, alla cerimonia del Nobel con Englert e Higgs. Com'è stato?

«Englert era venuto subito al Cern a vedere il nostro lavoro, io lo tenevo aggiornato; poi abbiamo fatto un patto e gli ho detto: se scopro il bosone che hai ipotizzato nel '64 a te danno il Nobel, ma mi inviti alla cerimonia... I due giovanotti, Englert e Higgs, comunque erano molto contenti».

Perché il bosone è importante?

«Un po' perché era cercato da 50 anni. E poi perché gioca un ruolo fondamentale, speciale, nell'universo: dà la massa a tutte le altre particelle. Se non ci fosse, il mondo così come lo conosciamo sparirebbe».

Sparirebbe?

«Ci sarebbero solo particelle libere, alla velocità della luce. Un mondo perfetto, ma tutto uguale, senza dinamica: è dalla rottura di questa simmetria perfetta che nasce il nostro mondo».

E ora che l'avete trovato?

«Ora viene il bello. Si aprono molte porte. Primo: una conferma del Modello Standard; secondo: ci può aiutare a capire di che cosa è fatta la materia oscura; terzo: da alcuni è ricondotto all'inflazione, il meccanismo da cui è nato il Big Bang».

Il bosone avrebbe addirittura fatto nascere l'universo?

«Secondo alcuni sì, ma è una tesi che scatena liti spaventose... Infine, ci può dire qualcosa su come finiremo. Prima si pensava che l'unico destino fosse il buio e freddo cosmico».

Invece?

«Invece il bosone ci dice che l'universo vive su un equilibrio instabile: basterebbe una piccola lacerazione a scatenare energie enormi. E allora tutto evaporerebbe in una bolla di luce e calore. Poi guardi, alla fine siamo ignoranti come capre».

Detto da lei...

«Il 96 per cento dell'universo ci è sconosciuto. La scienza ha fatto progressi grandiosi, ma non ha senso esaltarsi, siamo solo all'inizio».

Come sono gli scienziati?

«Dovrebbero essere coraggiosi, spingersi oltre il senso comune. Però siamo tutti un po' conservatori, perché ci esponiamo al rischio di sbagliare».

Al Cern guidava un gruppo di tremila persone: come ha fatto?

«Eh, già a una riunione di condominio, in venti, litighi... E poi non sono persone che obbediscono: è come avere una squadra di fuoriclasse. Contano la passione che ci divora e il discutere sulla base di fatti».

Fisico sperimentale che vuol dire?

«Lavoriamo con le mani, costruiamo gli strumenti per fare cose che non sono mai state fatte. Siamo una squadra, come fratelli, sul campo a soffrire, anche diciotto ore di fila. E c'è una regola: chi sbaglia viene premiato».

Scherza?

«Se uno sbaglia, e lo dice subito, viene elogiato pubblicamente. È il modo per evitare errori nascosti. C'era la corsa a fare il massimo, dovevo litigare per mandare la gente a casa a riposare. Sono stati anni magici».

Poteva succedere solo al Cern?

«Moltissimi erano italiani, che facevano avanti e indietro lavorando in Italia. Nella fisica delle alte energie il nostro Paese è all'avanguardia».Non c'è il problema dei fondi?«Non sono pochi. L'Italia ha un impegno serio al Cern, una presenza forte. È uno dei nostri campi di eccellenza: perciò andrebbe salvaguardato e esteso, anziché messo in difficoltà».

I nostri pregi?

«Se hanno la struttura che funziona, gli italiani non hanno paura di nessuno. Al Cern, quando c'è un problema o un imprevisto ci chiamano. Forse perché siamo abituati a stare nel caos. Mi diverto a mettere in crisi i giapponesi, gli svizzeri e perfino gli americani sull'efficienza».Siamo così bravi?«L'Italia non sfigura, anzi, gode di notevole prestigio. E l'Europa è leader nel mondo in questo settore».

Più dell'America?

«L'America sembra un po' rassegnata. Ora investono la Cina, il Giappone, la Corea del Sud. Io sono il responsabile italiano del progetto Fcc, un nuovo acceleratore europeo del futuro, di cento chilometri: ne parleremo in un congresso ad aprile a Roma».

Che cosa deve fare l'Europa per mantenere questa leadership?

«Manca un interlocutore politico: il Cern fa progetti di lungo periodo, poi ti trovi a dovere andare da ogni singolo governante, che ha tutt'altri problemi. Ma, per giocare un ruolo nel mondo, l'Europa ha bisogno di scienza e tecnologia: il benessere si gioca su questo».

Il bosone ci aiuta a vivere meglio?

«C'è sempre l'idea che la tecnologia arrivi nella quotidianità per miracolo, come se il telefonino lo facesse l'azienda produttrice. Ma lì, nel cellulare, c'è tutta la fisica degli ultimi 50 anni, inclusa la meccanica quantistica. Se visiti una fabbrica di microelettronica trovi dei mini-acceleratori».

Quindi la fisica entra nel quotidiano?

«Tutto nasce da scoperte di base che cambiano il mondo. E sono quelle della fisica.

Che fra l'altro dal Cern escono gratis. Il nostro lavoro spinge l'innovazione tecnologica e le conoscenze: l'innovazione è il petrolio del secolo, e l'America l'ha capito. Noi dobbiamo fare innovazione, altrimenti per l'Europa sarà il declino».

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