Milano - Quel che più colpisce delle foto di Max Peef sono i volti. Occhi che raccontano storie, occhi che rendono umani i racconti "leggendari" di un'Africa sin troppo lontana . Corpi sbattuti come fossero carne da macello, la sete di vivere che si mischia al desiderio rabbioso di ribellarsi, l'abbandono graffiato nella carne e scolpito nei cuori (guarda la photostory). Questa è la tristezza che pervade le foto di Max Peef: a raccontarla sembra quasi di ridurre il lungo lavoro di questo attento fotoreporter che, per un mese intero, ha vissuto il grido afono della Repubblica democratica del Congo.
Fin qui, però, potrebbe essere un lavoro scontato. Un servizio da riviste patinate. Non è così. Dietro alle fotografie di Max Peef c'è qualcosa di più. Si nasconde l'istinto alla felicità: la disperata ricerca di una condizione migliore. Una posizione umanissima che ritroviamo scolpita nei volti dei congolesi immortalati in questi scatti.
Quale immagine ti sei portato dietro dal Congo?
"Ce ne sono
tante, difficile scegliere. Eppure ne ho una in particolare che mi ha
colpito: un bambino, in fin di vita, abbandonato lungo il canale di
scarico di Bukavu, un piccolo paese che ho visitato. Davanti a quel
corpo scaraventato a terra ho colto tutta l'essenza di un posto in cui
avrei poi vissuto per circa un mese".
Cosa ti ha spinto ad andare in Congo?
"Sai, prima di iniziare
a fare il fotoreporter mi mantenevo facendo il fotografo di moda. Non
disconosco nulla: anche la moda fa parte del nostro vivere. Fotografare
la moda significa raccontare la vita. Ad ogni modo, in me c'è stato un
cambiamento dettato da un percorso personale: la pubblicità e la moda
mi stavano stretti dal momento che sentivo il bisogno di affrontare
temi che avessero un significato più umano. Non c'è stata una vera e
propria presa di coscienza che mi ha spinto in Africa. Posso dire
piuttosto che si tratta di un viaggio che, a poco a poco, è cresciuto
all'interno della mia coscienza. Ed è nato dopo un incontro".
Quale?
"Uno in particolare. Natalina Isella era la responsabile del centro di aiuto Ek' Abana (la casa delle bambine,
ndr). A dire la verità ho incontrato Natalina per puro caso ad una
conferenza: lei aveva aiutato una donna congolese a fuggire dal proprio
Paese. E' stato parlando con Natalina che ho percepito tutta la
meraviglia del progetto legato ai bambini stregoni".
Chi sono questi bambini stregoni?
"Sono una parte di quella
società africana che viene brutalizzata difronte alla necessità delle
famiglie di non poterli mantenere. Questi bambini vengono accusati
dalle proprie famiglie di essere degli stregoni".
Con quale scusa?
"Una vale l'altra. Lo zio si rompe il piede,
il raccolto va male, piove poco. Ogni scusa è valida per trasformare
questi bambini in veri e propri capri espiatori. Vengono colpite
soprattutte le bambine perché, da sempre, nella società africana, la
donna è l'anello più debole della società africana".
Di quali percentuali stiamo parlando?
"Dati precisi non se ne
possono avere. All'inizio il problema era circoscritto ad alcune
regioni del Congo, tra queste soprattutto il Kivu. Oggi, però, il
problema si sta diffondendo in tutto il Paese. Il problema è dettato
dal fatto che il governo non è in grado di arginare il fenomeno: il
livello di corruzione è ancora troppo elavato e il neonato governo
democratico (salito al potere nel 2006, ndr) è ancora immobile. Per
farla breve: la situazione non è affatto cambiata da quando c'era
Joseph Kabila al governo".
Torniamo ai bambini stregoni...
"Molto spesso questi bambini
vengono denunciati e portati in sette religiose dove, dopo essere stati
sottoposti a torture, confessano di essere stregoni o streghe. Dopo la
confessione questi bambini vengono abbandonati al loro destino: prima
però devono subire torture di ogni genere. Io stesso ho raccolto
numerose testimonianze di bambine chiuse in sacchi, appese a un albero
e picchiate con i bastoni fino a farle svenire. Non solo. In questi
casi, è molto frequente l'abuso sessuale, soprattutto all'interno delle
sette religiose".
Cosa ti ha colpito di più di queste tristi storie?
"La
bellezza di questi bambini è il percorso che li porta a perdonare i
propri carnefici (leggi le lettere di Riziki e Mugisho). Un percorso religioso molto importante".
Da cosa passa questo perdono?
"E' molto semplice. Il perdono
passa attraverso l'incontro di Gesù Cristo. Solo dopo aver incontrato
con la religione cattolica questi bambini capiscono il pieno
significato del perdono. Solo così riescono a capire che con il perdono
possono diventare un perdono per tutta la loro società. E parliamo di
bambini che hanno dai 5 ai 14 anni!"
E le famiglie capiscono l'errore?
"Non capita spesso che i
centri d'aiuto riescano a reinserire i bambini nel contesto familiare.
Tuttavia in un buon 80 per cento dei casi si riesce a recuperare il
bambino: se non all'interno della famiglia, almeno all'interno della
società".
Tornerai a breve in Congo?
"Certo. In novembre. Alcune
persone mi hanno invitato a toccare con mano le problematiche delle
aree fortemente urbanizzate come Kinshasa.
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