Politica

LA RESA DI GAZA Ma non sono profughi

L’evacuazione di Gaza non si è ancora conclusa ma da quanto è successo nelle ultime 48 ore si possono già trarre alcune osservazioni .
La prima concerne i coloni a Gaza. Nessuno mette in dubbio il loro coraggio, patriottismo e soprattutto la sincerità del loro dolore. Ci sono tragedie umane davanti alle quali indipendentemente da qualunque opinione personale è giusto inchinarsi. Tuttavia occorre anche osservare la situazione che si è creata a Gaza con realismo. Questo significa, anzitutto, fare la tara di quanto c'è di sfruttamento mediatico in questa faccenda. Questi coloni non se ne vanno da profughi. Se ne vanno addolorati, dimostrando un grande senso di responsabilità, sfatando le apocalittiche previsioni di possibile guerra civile, dimostrando la solidità delle istituzioni democratiche israeliane e con un gruzzolo che nessuno dei «pied noir» francesi in Algeria - per non parlare di casi ben più tragici - ha mai avuto dal suo governo.
La seconda osservazione concerne il movimento dei coloni. Ha subito una triplice sconfitta. Sconfitta di immagine, dimostrando dopo tutte le manifestazioni, minacce, convulsioni, di essere in fondo un pallone gonfiato. Sconfitta politica nella misura in cui il tentativo di imporre la volontà di una minoranza sulla maggioranza (più o meno silenziosa) con metodi extra parlamentari è - almeno per il momento - fallita. Sconfitta religiosa nella misura in cui almeno alcuni dei suoi rappresentanti auto nominatisi interpreti della volontà divina hanno dimostrato col loro comportamento di essere più vicini al feticismo idolatra che all'elitismo morale del monoteismo ebraico.
A Gaza non è morto il sogno del grande Israele. È stato seppellito. Il fatto che l'affossatore sia stato l'uomo politico israeliano che più aveva infiammato questo sogno sembra indicare alcune premesse importanti per l'avvenire.
Anzitutto che Israele ha cambiato visione strategica comprendendo che nel mondo del dopo 11 settembre non è più la «Cecoslovacchia» accerchiata di cui Sharon parlava nel 2001 ma una roccaforte - anche se non da tutti riconosciuta - nello schieramento democratico alle prese con la teocrazia terrorista islamica. In secondo luogo la maggioranza del pubblico israeliano sembra avere capito che se le guerre fra Israele e gli Stati arabi sono state costruttive - a causa della superiorità militare, dello sviluppo economico che hanno provocato, e del fatto che sono guerre che per loro natura portano alla pace (lo si è visto con l'Egitto e la Giordania) - le guerre fra popoli come quella condotta da Israele contro i palestinesi nel Libano, la prima e seconda intifada, sono distruttive per entrambe le parti perché rischiano di trasformarsi sempre in guerre civili.
È difficile sapere in quale misura la riflessione storica abbia influenzato la condotta di Sharon. Ma poiché la politica è l'arte del possibile, in tutti questi mesi in cui è andato con tenacia e coraggio controcorrente e contro le sue stesse proclamate idee, ha dimostrato di essere un grande artista dello stato. La trasformazione mediatica in corso di questo vecchio generale passato dalla demonizzazione all'incensamento è probabilmente quello che fa più male ai suoi nemici, all'interno e all'esterno di Israele. È però anche una trasformazione che fa onore ad un piccolo, coraggioso, psicopatico Paese, affamato di pace e di libertà che smentisce la perversa delegittimazione a cui per tanto tempo è stato oggetto. Al tempo stesso Israele è una realtà sovrana che come tutte le nazioni nuove deve imparare ad usare il delicato strumento della sovranità.
Cosa distingue, chiede il Talmud, il furbo dal saggio? Il fatto che il furbo si sa districare da situazioni in cui il saggio non sarebbe mai entrato.

Sharon ha dimostrato di sapersi districare da situazioni molto difficili; il futuro dimostrerà se ha ora acquisito la saggezza dell'uomo di Stato capace di guidare il Paese ad accettare le scelte sagge di cui ha bisogno.

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