La rete dell’estremismo: 40 indagati nei centri sociali

Per alcuni si profila anche l’accusa di aver già compiuto attentati terroristici: un reato che prevede almeno sei anni di carcere

La rete dell’estremismo: 40 indagati nei centri sociali

Milano - Ilda Boccassini ha preparato la grande trappola. Ora attende al centro della ragnatela, nel suo ufficio al quarto piano. È paziente. C’è tempo. Conta di chiudere il cerchio pizzicando chi è rimasto fuori dalla prima retata di lunedì. Nel mirino gli 80 indagati perquisiti sempre durante il blitz e collegati ai 15 arrestati.
«Attentati compiuti». A questo plotone di presunti brigatisti pare non interessarsi nessuno in questi giorni di manette, prigionieri politici e Vicenza. Eppure la loro posizione è in bilico. Sono tutti indagati, a vario titolo, di associazione sovversiva o partecipazione a banda armata. Ma c’è di più. Ad alcuni di loro è persino contestato di aver già compiuto degli attentati terroristici in Italia. Il famigerato articolo 280 del codice penale che prevede pene non inferiori ai 6 anni. Non si tratta di un cavillo per appassionati di diritto ma un’ipotesi gravissima e rimasta inedita in questa inchiesta. Emerge dai decreti di perquisizione e, fatto più importante, non era stata mossa a nessuno dei 15 neo-brigatisti arrestati lunedì. Solo a chi è rimasto libero e sotto osservazione.
Centri Sociali nel mirino. Degli 80 indagati la metà, circa 40, sono frequentatori di centro sociali. Dei 30 perquisiti a Padova e identificati poi in questura, oltre una ventina frequentano il Centro sociale Gramigna e il Collettivo politico comunista. Diversi di questi, oltre a Davide Bartolato arrestato, erano già segnalati alla Boccassini dagli 007 del Sisde. Meno di una decina frequentavano invece il centro proletario Ilic di viale Sarca a Milano, costituito da Claudio Latino, ritenuto uno dei promotori delle nuove Br. Un punto di ritrovo per personaggi ritenuti interessanti. Come le persone che parteciparono in sede alle riunioni nell’autunno del 2005 e, in particolare, a quella del 14 settembre 2005, oltre a Massimiliano Gaeta, Latino, Zanin e Angela Ferretti, militante della Assemblea nazionale anticapitalista, nonché sindacalista componente del direttivo Fiom-Cgil e dell’Rsu Omnitel. Quest’ultima, tra l’altro è stata arrestata ieri a Sesto San Giovanni mentre affiggeva dei manifesti in solidarietà agli arrestati. Una piccola digressione: Ferretti e Gaeta erano coppia fissa nel mondo dell’antagonismo e cercano in ogni modo materiali alla vita in semi-clandestinità. Nemmeno un anno fa sul pc di casa, «attraverso un collegamento - si legge nell’ordinanza - è stato a lungo visitato il sito Ebay.it eseguendo ricerche mirate di sistemi di radio comunicazioni, di video sorveglianza, scanner, kit microspia professionale quarzata, rivelatori di microspie, nonché particolari oggetti da lavoro, quali presse, torni, trapani, fresatrici, saldatrici e seghe per metalli, tutti di elevato impiego professionale». Ferretti e Gaeta portano dritto al centro sociale La Fucina di Sesto San Giovanni. Altro luogo cerchiato di rosso con un altro gruppo di indagati. E non tutti oggetto delle perquisizioni di lunedì.
Il gruppo torinese. Ma quello che rimane coperto dalla discrezione più totale degli inquirenti sono profilo e calibro degli indagati piemontesi, in qualche modo legati al funzionario della Cgil Vincenzo Sisi, anche lui arrestato lunedì. A Torino va il capo Bruno Ghirardi per sistemare la guarnizione di un silenziatore difettoso. Nello scorso ottobre Sisi fa anche una ricognizione a una filiale banca Intesa per il progetto di rapinare un addetto del sindacato delegato al ritiro delle indennità e rimborsi in banca dovuti ai dirigenti sindacali. Gli inquirenti sospettano in realtà che Sisi possa aver raccolto consensi negli ambienti della Cgil torinese che frequentava tutti i giorni. Sia per il ruolo ricoperto. Sia da quanto si evincerebbe da alcune ulteriori intercettazioni. In definitiva della cellula piemontese, al di là della figura di Sisi, trapela pochissimo.
Digos e Boccassini affrontano quindi la fase più delicata dell’inchiesta. Una guerra di nervi con chi è rimasto fuori dalla rete. Che si sente il fiato sul collo. E che potrebbe essere oggetto di nuove misure cautelare.

Gli inquirenti già sapevano e avevano messo anche in conto che mai avrebbero ricevuto aiuto dagli arrestati. Ma di fronte alle prove acquisite ritengono non averne bisogno. Su chi, invece, è sfuggito alla retata, è un altro discorso. Ma la Boccassini non ha fretta. E attende.
gianluigi.nuzzi@ilgiornale.it

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