Il revival mette ko le nuove canzoni

Sicuramente ho torto. E sicuramente quello che state per leggere sarà bollato come un articolo nostalgico, scritto da un babbione sentimentale. Metto subito le mani avanti e non solo per parare il colpo delle critiche che accetto in partenza, tanto sono solo canzonette. Ma queste critiche che già fischiano nelle orecchie, voglio provare a confutarle

Sicuramente ho torto. E sicuramente quello che state per leggere sarà bollato come un articolo nostalgico, scritto da un babbione sentimentale. Metto subito le mani avanti e non solo per parare il colpo delle critiche che accetto in partenza, tanto sono solo canzonette. Ma queste critiche che già fischiano nelle orecchie, voglio provare a confutarle convinto come sono che anche la nostalgia e il sentimentalismo hanno le loro solide ragioni. Dunque, correrò questo rischio.
Giovedì sera, dopo due serate debordanti come il davanzale della Clerici di Valerioscanu e Simonecristicchi e Povia, sono spuntati all’Ariston Cocciante e Carmen Consoli, Elisa e Massimo Ranieri. Tutta un’altra musica. Tra La voce del silenzio di Mina (cantata da Francesco Renga) e Non è una canzone di Fabrizio Moro non dovrebbero esserci dubbi. E nemmeno tra Nel blu dipinto di blu, vero inno nazionale, e Italia amore mio di Pupo, il Principe e il tenore Canonici. Con tutto il rispetto, in tre non fanno un cromosoma di Modugno.
Si faccia avanti chi dice il contrario e sostiene che ormai la musica va da un’altra parte e che questi sono vecchi stereotipi. Senza infierire però. Non vorrei essere spianato da legioni di televotanti reduci da X Factor e Amici che, dalla loro, hanno la forza dei numeri e della quantità. Bastano, infatti, gli indici di ascolto delle prime due serate sanremesi targate Antonella Clerici per costringere alla resa, senza rigurgiti di orgoglio, tutti i nostalgici della canzonetta d’antan. Lo dice anche Maurizio Costanzo che la sa lunga e appartiene a una generazione ancora diversa: i talent e Maria De Filippi hanno cambiato e svecchiato il Festival. Indiscutibile. Anche perché «quelli sì, che erano tempi» l’abbiamo già sentito dire mille volte. È sufficiente un rapido giro di coetanei cinquantenni cresciuti a Rolling Stones e Who, a Jethro Tull e Pink Floyd per scambiarsi i ricordi di genitori che impacchettavano il tutto con un «voi ascoltate rumore». Ancor più inappellabile se, per caso, il papà suonava il violino...
Dunque, sono corsi e ricorsi, cicli storici che si ripetono e che però vanno a sbattere contro la «prova confronto». Per parlare di ieri, meglio i Led Zeppelin o Beethoven, la Premiata Forneria Marconi o Mozart? Anche se la ruota gira e ognuno è figlio del proprio tempo, difficile non saper rispondere.
In mezzo - tra il rock e la classica - c’era proprio il Festivalone, troppo rassicurante, che snobbavamo altezzosi. Mentre ora quelle canzoni sono diventate cover e, con la ruota che gira, sono rientrate dalla finestra, finendo per rappresentarci almeno un po’. E il revival - che sarebbe stato più completo con Balla Linda di Battisti, Donne di Zucchero, Dormi e sogna degli Avion Travel, un po’ di Patty Pravo, Vasco e Celentano - è un tuffo dove la musica è più blu. Per tornare all’oggi, la prova del paragone si può fare sui testi e sulle interpretazioni. Meglio il romanticismo di Perdere l’amore di Massimo Ranieri («Lasciami gridare/ rinnegare il cielo/ prendere a sassate/ tutti i sogni ancora in volo/ li farò cadere ad uno ad uno/ spezzerò le ali del destino/ e ti avrò vicino») o quello di Per tutte le volte che di Valerio Scanu («Per tutte le volte che/ mi chiedi scusa e scusa più non è/ ma trovi sempre il modo di farmi/ sembrare il simbolo del male»)? Certo, a cinquant’anni il groppo in gola viene in modo diverso che a venticinque. E magari, con il televoto, Scanu vincerà pure il sessantesimo Festival di Sanremo. Ma la differenza di qualità della prosa, se pure non siamo nel campo della matematica, non è nemmeno marmellata. Lo dimostrano anche gli ascolti dell’altra sera, tonici almeno quanto le prime due serate di gara se non di più.

E, comunque, anche se non fosse così, non mi arrenderei. Fate pure partire il televoto - che odora parecchio di marketing - ma io continuerò a tenermi il buon artigianato di 4 marzo 1943 di Dalla o L’immensità di Don Backy. Così, tanto per pescare nel mazzo.

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