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Ricattata dal regime di Teheran

Il premio Nobel per la Pace Shirin Ebadi racconta come il governo iraniano le abbia sequestrato tutto Ora i leader le propongono un patto: la restituzione dei beni in cambio del silenzio. Lei non ci sta

Ricattata dal regime di Teheran

È una abituata a bruciare le tappe l’iraniana Shirin Ebadi. Sessantatré anni, avvocato e attivista per i diritti umani, si è impuntata fin da giovane per studiare magistratura ed è arrivata, negli anni Settanta, a essere presidente di una sezione del tribunale di Teheran. La Rivoluzione islamica le ha tolto la toga, lei ha tenuto duro e ottenuto, negli anni Novanta, di poter aprire uno studio in proprio. Da sempre si batte per la difesa dei diritti dei bambini, dei liberali e dei dissidenti perseguitati dal regime iraniano, con cui entra costantemente in rotta di collisione.

Nel 2003 le è stato conferito il Nobel per la Pace: è la prima donna musulmana a ottenerlo. Seguono le minacce e l’«autoesilio» in giro per il mondo, a tenere conferenze sulla situazione dei diritti civili in Iran (in patria è accusata di evasione fiscale sui soldi ricevuti dal Nobel, accusa infondata perché la legge iraniana prevede che premi e onorificenze siano esentasse). Ha chiesto (e ottenuto) due colloqui con il segretario generale dell’Onu Ban Ki-moon e parlato molte volte al consiglio dei diritti umani delle Nazioni Unite: non torna a casa da undici mesi («sono partita l’11 giugno, giorno prima delle presidenziali, per un convegno in Spagna di tre giorni: il quarto giorno non sono rientrata perché il mio Paese non era più lo stesso»), ma segue tutte le notizie su Internet. Ieri, il titolo di apertura del più diffuso giornale online iraniano era dedicato all’esproprio da parte dello Stato di tutti i suoi averi. Abbiamo incontrato Shirin Ebadi a Udine, dove in questi giorni è ospite d’onore del festival «Vicino/Lontano», fino a domenica in diversi luoghi della città.

Signora Ebadi, nei giorni scorsi all’Onu il presidente Mahmoud Ahmadinejad, accusato per il processo di arricchimento dell’uranio, ha contrattaccato dicendo che gli Stati Uniti e i suoi alleati, Italia inclusa, incentivano la corsa al nucleare. Che ne pensa?
«Il nucleare non è la forma di energia su cui dovrebbe puntare il mio Paese. Potremmo sfruttare una risorsa che non ci manca, il sole, e produrre ed esportare energia solare. Fino a oggi abbiamo investito sul petrolio e in trent’anni non siamo stati in grado di costruire una raffineria. Risultato? Compriamo benzina dall’estero».

Non crede che il dibattito sul nucleare in Iran metta in ombra un’altra emergenza, quella dei diritti umani?
«Negli ultimi 31 anni ci sono state 25 risoluzioni delle Nazioni Unite che accusano l’Iran di violazione dei diritti umani: l’ultima è del dicembre 2009. La situazione è peggiorata: nell’ultimo anno l’Iran ha avuto il numero più alto di esecuzioni capitali su minori ed è secondo soltanto alla Cina nei dati sulla pena di morte. Dopo le proteste della scorsa estate, sono aumentati gli arresti, le torture e gli stupri in carcere. Ricordo che Jafar Panahi (regista de «Il cerchio», Leone d’Oro a Venezia nel 2000, ndr) è in carcere in isolamento da due mesi soltanto perché aveva intenzione di girare, in casa sua, un film contro il regime».

Le risoluzioni delle Nazioni Unite non sono servite a molto.
«Per la sua struttura l’Onu non può fare più di così, ma per noi è importante il sostegno della gente comune e dimostrare che il popolo iraniano non ha nulla a che fare con il regime che lo governa. Internet ci ha aiutato molto, in questo. Twitter e i blog hanno mostrato al mondo il volto della protesta, un volto fatto di donne, che rappresentano il 65 per cento degli studenti universitari, e di giovani (il 70 per cento della popolazione iraniana è under 30,ndr). Per gli iraniani è importante sapere di avere un mezzo che supera la censura e per questo sono stata la prima firmataria della petizione che candida Internet al Nobel per la pace 2010».

Ora le hanno confiscato tutti i beni, compresi gli appartamenti e i fondi destinati alle sue associazioni.
«Vede? Il nostro è un regime che non rispetta nemmeno le leggi che promulga».

Non teme per l’incolumità sua e dei suoi familiari?
«Mio marito, ingegnere elettronico, e mia sorella, docente universitaria, persone che nulla hanno a che fare con la politica o con l’associazionismo, sono state trattenute in carcere per alcuni giorni. Io stessa sono stata minacciata tante volte: il regime vorrebbe trattare con me, restituendomi i beni sequestrati in cambio del silenzio. Ma la mia coscienza non è in vendita».

C’è chi guarda a lei come a un possibile leader politico.


«Non entrerò mai in politica, non appartengo ad alcun partito: sono soltanto un difensore dei diritti umani».

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