Il caso della lavoratrice di cui si tratta oggi in queste pagine non è isolato. Altre volte è capitato di assistere a strane situazioni in cui chi licenziava era il sindacato. Forse la vicenda più nota degli ultimi tempi fu quella di Ciro Crescentini, un sindacalista, stimato dirigente provinciale della Fillea Cgil di Napoli, 47 anni con figlia e affitto da pagare, che si vide recapitare una lettera dal sindacato che, fatto salvo un beffardo uso del «tu», poco aveva da invidiare ai benserviti delle aziende americane. Diceva la missiva: «...non essendo rinvenibile alla nostra organizzazione alcuna posizione lavorativa cui poterti destinare per consentire la tua permanenza a qualsiasi titolo, ti comunico che, a far data dal prossimo 24 Settembre c.a decorre la risoluzione del rapporto fin qui intercorso. Ritieniti esonerato dal prestare attività nel periodo di preavviso, che ti sarà corrisposto unitamente a tutte le competenze maturate...».
Il caso fece rumore perché ci fu il fastidioso sospetto che il sindacalista venne «silurato» perchè troppo zelante nel segnalare e denunciare abusi e manchevolezze anche interne all’organizzazione, insomma che grattasse dove non doveva grattare. Quali che fossero le motivazioni reali in ogni caso si tratta di situazioni che fanno riflettere, dal momento che, per un caso che finisce sotto la luce, ce ne sono certamente decine che si consumano nel silenzio, ritornando al modo di fare tipicamente italico di chi invoca la gabbia per gli altri ma pretende mani libere per sé. Una pacchia, bilanci che nessuno ha mai visto, trasparenza ridotta ai minimi termini, un patrimonio immobiliare immenso che in pratica nessuno conosce veramente. Un mondo autoreferenziale ed intoccabile che per certi versi sembra correre in parallelo con certe caratteristiche della magistratura. Sindacato e giustizia furono infatti protagonisti delle più veloci sconfessioni di un referendum popolare della storia della Repubblica: la responsabilità civile dei giudici venne infatti disinnescata a tempo di record dalla legge Vassalli che imponeva che a pagare per la negligenza del magistrato fosse in prima istanza (guarda caso) lo Stato; i sindacati furono ancora più lesti nell’incenerire il referendum che aboliva la trattenuta automatica del contributo in busta paga, creandone «l’annegamento» nei contratti collettivi, con buona pace di tutti.
Il parallelo fra il sindacato che (se vuole) licenzia e la magistratura si intreccia curiosamente nei motivi dello sciopero di domani, dove la Cgil pensa bene di scendere in piazza contro una norma che, semplicemente, aggiunge la possibilità concordata di ricorrere, per le controversie di lavoro, ad un arbitrato invece che al lentissimo tribunale. Un’opportunità in più per il lavoratore, ma anche un provvedimento che rischia di toccare quello che a molti pare un misterioso accordo tacito fra il sindacato e il palazzo di giustizia, tale per cui il sindacalista tende ad ottenere quasi sempre ragione.
Insomma, la Cgil è uno dei potentissimi partiti del «No» che si mettono di traverso contro qualsiasi ipotesi di cambiamento. Niente di strano da parte loro: in questa palude del veto, del ricorso, del cavillo e della minaccia del pantano finale rappresentato dal tribunale il sindacato ci sguazza.
Molto meno sguazzano gli interessi (veri) dei lavoratori e della crescita del Paese, ma si tratta di aspetti secondari per chi gestisce un tale potere di interdizione, sottoposto a vincoli e controlli che sarebbero il sogno di una qualsiasi impresa produttiva.
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