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Ricchi, famosi e ritardatari Ecco i candidati ombra negli Usa

Al Gore è un fantasma. Si siede su una seggiola da scolaro, di fronte alla commissione ambiente del Congresso. Mostra le slide. Sorride. Sorride sempre l'ex vicepresidente diventato ambientalista, ex anima centrista trasformato in capopolo della sinistra verde e liberal. Normale cittadino, dice. Solo che le persone normali non vengono ricevute a Capitol Hill. Nega, però. «Non voglio candidarmi alla Casa Bianca». In America c'è chi non gli crede. Ombra, Al. Una delle quattro sagome che aspettano: forse è cominciata troppo presto la volata verso le elezioni 2008. Gore conta: mancano otto mesi alle primarie democratiche e diciannove allo scontro con i repubblicani. C'è tempo per i candidati che non ci sono, ma esistono, che fanno finta di niente, ma sperano, che non corrono, ma spuntano sempre e comunque nei sondaggi. Diranno che li ha voluti la gente. Gore ci pensa in segreto: è uscito da cinque anni di anonimato, ha prodotto e creato un film sulla distruzione del pianeta, ha vinto l'Oscar. Adesso scrive. È all'ultima rilettura del suo libro The Assault on reason. Uscirà il 22 maggio, col traino del dvd di An Inconvenient Truth, il documentario premiato dall’Academy di Hollywood poco più di un mese fa. Uscirà mentre la campagna elettorale avrà fatto un altro passo avanti, con Hillary ricca e impegnata a tenere a freno i sogni di Obama, con la questione Irak sempre in prima pagina, con le prime difficoltà dei candidati già venuti allo scoperto.
Il cammino di Gore
Al firmerà copie su copie, sorriderà ancora e spunterà nella classifica del New York Times. Certo, è un caso. Così come il titolo, che solo accidentalmente ha tanto l'aspetto di un programma elettorale. Continua a dire di no, Gore. Ripete come un disco incantato che ha cambiato vita e progetti, che il suo posto è nel Tennessee, però Washington Post, New Republic, The Nation, Boston Globe sostengono tutti che l'ex vicepresidente di Clinton fregato sul traguardo da Bush nel 2000 cova il desiderio di riprovarci. Si scrive, allora: «Al può contare su un dettaglio. A differenza degli altri democratici, come la Clinton, Obama ed Edwards, lui può dire all’America di aver governato, di aver avuto ruoli di responsabilità diretta, di essere stato alla Casa Bianca». Gore il fantasma giocherà sulla sua nuova immagine da paladino dell’ambiente, anche se non ha cominciato benissimo: casa sua, con trenta bagni e decine di stanze, consuma in un mese quello che una casa statunitense media consuma in un anno intero. Una scomoda verità: non è detto, però, che riesca a frenare la marcia del candidato fantasma democratico alle primarie.
Mister legge e ordine
Poi c’è l’ombra di Arthur Branch: l’America di Law & Order ha già la tv accesa. Nbc e Tnt: l'appuntamento è stasera. Fisso. Arthur c’è. Con la faccia e la voce di Fred Thompson: fermo, deciso, autorevole. Fa il procuratore distrettuale a New York: piace perché fa sentire protetti. Gli americani vorrebbero un presidente così: Fred allora c'è anche adesso. Sagoma che si comincia a fare un po’ ingombrante per gli altri aspiranti presidenti. Non nega, lui: «Lascio la porta aperta». Vuol dire che è pronto a candidarsi, a entrare nella lotta per le primarie del partito repubblicano, contro Rudy Giuliani, John McCain e Mitt Romney. Lo dice a Fox news e quindi parla all'America che comprende il linguaggio conservatore. Ci crede. Ci spera. Un altro attore con la Casa Bianca in vista: il nuovo Ronald Reagan, forse. Così l'ha definito Il Foglio, che ha raccontato i primi passi di Thompson verso la sua campagna. Ora che il Washington Post gli ha dato la prima pagina, forse vuol dire che la corsa è cominciata per davvero. Fred ha incontrato i leader repubblicani nel suo Stato, il Tennessee. Sono tutti con lui: lo spingono, lo sorreggono, lo incitano. Non sono i soli. C'è che la base repubblicana non ha ancora un candidato suo: non può essere McCain, né Giuliani, né Romney. Potrebbe essere Gingrich, che non si è ancora mosso. E potrebbe essere Thompson. Gallup l'ha chiesto: oggi Fred è già al 12 per cento delle preferenze nei sondaggi fatti nell'elettorato conservatore. È terzo, quindi. Dietro Giuliani e McCain, ma senza essere candidato ufficialmente. Thompson legge i numeri e comincia a fare qualche calcolo. Si ricorda del 1992: aveva 50 anni e si candidò al Senato nel seggio del Tennessee lasciato libero proprio da Al Gore diventato vicepresidente. Vinse, Fred. Vinse con una percentuale così netta che l'avversario avrebbe anche potuto non candidarsi affatto. Così l'Ammiraglio Joshua Painter di Caccia a Ottobre Rosso arrivò al Congresso. Che poi c'era già stato un'altra volta: nel 1974, a 29 anni fu nominato consulente della commissione d'inchiesta sull'affare Watergate. Ha fatto l’avvocato, il lobbista, il politico di professione, l’attore. Sa parlare, sa scrivere, sa stare su un palco. Su di lui ha scommesso Bill Kristol dalla sua rubrica di Time: «Può essere davvero un potenziale candidato. È il più reaganiano di tutti».
Thompson è libertario, spinge sui tagli fiscali, ha sostenuto la guerra in Irak. È repubblicano vero. Collabora con il pensatoio American Enterprise Institute e scrive sulla storica rivista del conservatorismo Usa, National Review. È uno che può disturbare Rudy Giuliani nella sua corsa alla nomination.
Newt & Mike
Come Gingrich, d’altronde. Cioè un altro fantasma, un altro col dito in alto a sentire il vento che tira. È incappato in un mezzo scandalo sessuale, adesso. Una storia di amanti e ipocrisie confessata quasi dieci anni dopo: «Accusavo Clinton, ma tradivo mia moglie». Avrà fatto storcere il naso a qualcuno, ma la storiella non sembra grave abbastanza da tagliare del tutto le ambizioni. C’è che l’ex speaker della Camera conta ancora. È sempre l’uomo del contratto con l’America, il manifesto politico che portò i repubblicani a prendersi il Congresso nelle elezioni del 1994, quando alla Casa Bianca c’era Bill Clinton. Fuori da Washington, ora Gingrich passa il tempo a mettere insieme i repubblicani e a costruirsi un nuovo futuro da dirigente. È uno che sa dove puntare. Parla: «McCain e Giuliani sono ottime persone, ma loro si candidano alla presidenza, io mi candido a cambiare il Paese». Ha il 10 per cento dei sondaggi, da non candidato. Aspetta, allora. Anche per lui c’è tempo. Può guardare, capire, sondare. Non ha fretta, che poi è lo stesso vantaggio di Mike Bloomberg, forse il più fantasma dei candidati fantasma. Fa il sindaco di New York, dice che quando smetterà con la politica, nel 2009, farà solo il filantropo. Poi al suo staff sussurra la verità: «Potrei anche candidarmi». È un ex democratico eletto sindaco con i repubblicani. Se si candidasse, potrebbe scegliere la terza via: lì i liberal, lì i conservatori, in mezzo lui. Indipendente. Oppure potrebbe correre da repubblicano. Ha i dollari, ha i numeri, ha la faccia. Ha tempo.

Può non avere solo la voglia.

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