Alla ricerca del Mantegna «teologo»

Sono tutte opere realizzate negli ultimi anni per la devozione privata

Ferdinando Maffioli

La presenza, per la prima volta a Milano, del capolavoro del Mantegna «La Sacra Famiglia con Sant’Elisabetta e San Giovannino» - in prestito al Museo diocesano fino al 2 luglio dal texano Kimbell Museum - offre l’occasione di un minitour cittadino alla scoperta di un aspetto fondamentale dell’arte del pittore veneto: le piccole opere a carattere devozionale privato.
Produzione in cui Mantegna (quest’anno ricorre il quinto centenario della morte) sperimentò per primo, mutuandola probabilmente da certi ritratti di gruppo nei monumenti funerari romani, una composizione scenica con più personaggi a mezza figura. «Costui mostrò col miglior modo - scriveva Giorgio Vasari nel 1568 - come nella pittura si potesse fare gli scorti delle figure al di sotto insù, il che fu certo invenzione difficile e capricciosa... ». Un registro compositivo completamente nuovo, dunque, che liberava l’artista dall’obbligo di solenni impianti scenografici come architetture, troni, balaustre e quant’altro. Un tipo di rappresentazione sacra più «raccolta» che ebbe molto successo, e che il pittore esalterà soprattutto nei lavori della maturità, con sempre più delicati dosaggi di affetti ed emozioni.
Di queste opere di piccolo formato, nate per la devozione famigliare, protagonisti la Vergine e il Bambin Gesù, se ne conoscono circa dieci. E attualmente quattro (in realtà tre più una copia) sono a Milano: oltre al Diocesano, alla Pinacoteca di Brera, al Poldi Pezzoli e alla Pinacoteca Ambrosiana. Ma solo una, la tenera Madonna bionda con il suo Bimbo addormentato del museo di via Manzoni, è sempre stata attribuita al pittore nato nel paesino d’Isola di Carturo, tra Padova e Vicenza. Almeno da quando, poco dopo il 1856, l’opera fu ceduta «a prezzo modico» dallo storico dell’arte Giovanni Morelli al collezionista Poldi Pezzoli. Si tratta di una piccola tempera (35 centimetri per 45) di cui Roberto Longhi, grande storico dell’arte, vantava, in particolare, «i begli effetti cromatici e atmosferici».
Quello della dolce intimità, dell’affettuoso abbraccio tra Madre e Figlio, con la Vergine velatamente assorta e presaga del destino di Gesù, era del resto tema caro e consolidato dell’artista, che in esso vi trasponeva una sorta di espressionismo donatelliano «contagiato» di pittura fiamminga, già ampiamente diffusa nell’Italia del Quattrocento.
La «Madonna col Bambino e un coro di cherubini» di Brera non era invece considerata - fino al 1885 - una sua opera. In quella tavola (70 centimetri per 88) la luminosa dolcezza del volto della Vergine e una «cromia insolitamente accesa» avevano condotto all’arte di Giovanni Bellini, puro poeta del colore, che di Mantegna era cognato. Il restauro di Luigi Cavenaghi, appunto nel 1885, aveva però restituito il dipinto alla mano del pittore noto soprattutto per la mantovana «Camera degli sposi». D’altra parte, quei cherubini così «attivi e vibranti», che, secondo alcuni critici, avevano tanto impressionato nel 1485 Eleonora d’Aragona, duchessa di Ferrara, potevano anche «sfuggire» al mondo marmoreo e lapideo di Mantegna (si veda, sempre a Brera, il celebre «Cristo morto»). Lo stesso Francesco Squarcione, prima maestro e poi avversario del nostro Andrea, ne considerava i personaggi statue dipinte e ricavate dalla «durezza dei sassi». «Nelle opere sue - confermava il Vasari - si vede in vero la maniera un pochetto tagliente e che tira talvolta più alla pietra che alla carne viva». Anche Longhi ne aveva indicato l’«ossessione glittica», riferendosi all’arte di intagliare e incidere le pietre dure e preziose.
Percorso inverso, invece, per quanto riguarda la paternità artistica, è toccato alla tempera su tela incollata su tavola della Pinacoteca Ambrosiana. Dipinto appena tolto dai depositi proprio per il quinto centenario della morte. E in vista delle celebrazioni che dal 16 settembre al 14 gennaio 2007 toccheranno Padova, Verona e Mantova. Quando arriva in piazza Pio XI, nel 1959, donato insieme ad altre tele della collezione Attilio Brivio, il quadro ha l’«altisonante attribuzione a Mantegna». Supportata da una discreta scorta di expertises. In una di esse si legge, catalogo Electa dell’Ambrosiana, volume primo: «Opera di squisitezza sapiente e di pacata ma sottile espressione. Spetta all’ultimo tempo del longevo e sempre attivo Andrea Mantegna».
Oggi è considerata, «a evidenza», una bella copia dell’«Adorazione dei Magi» del Paul Getty Museum di Los Angeles. Dalla quale sono ripresi - in un alone di luce vellutata e diffusa che ammorbidisce le figure - la tenera rappresentazione di Gesù, qui più grandicello e con bei riccioli biondi rispetto all’originale, la sua mano benedicente, e l’accentuata tristezza della Vergine. Quanto all’autore, si pensa a Francesco Bonsignori (o al fratello Gerolamo), veronese e contemporaneo di Mantegna, di cui subì inizialmente l’influsso.
L’ultima tela, quella che il Museo diocesano espone fino al 2 luglio, fu messa all’asta da Sotheby’s a Montecarlo nel giugno di vent’anni fa. Anche se sul retro aveva la scritta, decisamente impegnativa, «Leonardo da Vinci», il dipinto era considerato soltanto della scuola di Mantegna. Ma, anche in questo caso, fu il successivo restauro, in vista dell’ingresso (1987) al texano Kimbell Art Museum, a riportare indubitabilmente il piccolo capolavoro all’abilità del Maestro.
«L’atmosfera di delicato intimismo che l’immagine riesce a ispirare - scrive Eugenia Bianchi nel piccolo catalogo che accompagna l’esposizione di corso di Porta Ticinese 95 - è prerogativa totalmente di Mantegna. Egli la infonde nel sorriso appena accennato della Vergine, madre affettuosa e guardinga, nel gesto colmo di tenerezza di Gesù che le stringe l’indice, e ancora nel mirabile gioco di sguardi, che si incrociano in una complessa trama di diagonali».
In questo minitour, lungo il percorso di questi lavori nati esclusivamente per la devozione privata, si scopre dunque anche l’accentuarsi di una malinconica spiritualità, di un’infinita mestizia, che accompagnano il Mantegna degli ultimi anni. Fino ai confini della teologia.

«La composizione serrata e maestosa di Mantegna - ha detto monsignor Luigi Crivelli, presidente del Museo diocesano, riferendosi alla «Sacra Famiglia» - vuole aiutare il cristiano nella comprensione di un mistero profondo. È lui, con la sua arte, a introdurci in una certezza di fede che lo sguardo raccolto e penetrante della Madonna ricorda ed esalta».

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