Cultura e Spettacoli

Ricette sbagliate

Quando Richard Nixon dichiarò che ormai si era «tutti keynesiani», egli si riferiva al grande successo dell’autore della Teoria generale. Non è però facile capire cosa caratterizzi davvero quella riflessione sull’economia.
Come mostra assai bene un recente libro di Hunter Lewis (Tutti gli errori di Keynes. Perché gli Stati continuano a creare inflazione, bolle speculative e crisi finanziarie, edito da IBL Libri, pagg. 444, euro 24), non esiste una teoria keynesiana in senso proprio, dato che ci troviamo di fronte a un autore quanto mai incoerente. Ad esempio, prima di diventare il massimo ideologo dell’espansione monetaria quale chiave per risolvere molti problemi (a partire dalla disoccupazione), all’indomani della Grande Guerra scrivendo sulle conseguenze della pace egli aveva accusato l’inflazione di essere una tassa nascosta. E quando Friedrich von Hayek iniziò a lavorare a un libro contro le sue tesi, abbandonò subito il progetto, dato che l’interlocutore cambiava di continuo opinione, rendendogli difficile sviluppare una critica lineare delle sue idee.
Nella prima parte volume Lewis espone i principali argomenti dello studioso, individuando i passaggi più rappresentativi e collocandoli nell’opera complessiva. In seguito egli evidenzia le incongruenze, gli errori logici e i sofismi di Keynes, che non soltanto rigetta il buon senso del padre di famiglia (suggerendo, ad esempio, di affrontare le difficoltà economiche con un aumento delle spese...), ma soprattutto mischia tecnicismi, cattiva matematica, un uso improprio dei termini comuni e altre strategie sofistiche. Nella “follia”, però, c’era una logica, e anche assai stringente.
Introducendo il volume, Francesco Forte sottolinea infatti come quella di Keynes sia in larga misura una prospettiva tecnocratica. Per lo più egli si limita a suggerire che i migliori esperti siano posti alla guida della «mega-macchina» (politica monetaria, regolazione, prelievo tributario, redistribuzione) e che di volta in volta trovino le soluzioni più adatte. Questa delega a favore dei programmatori si sposa bene con una concezione che non suggerisce regole generali, ma solo un insieme di espedienti.
La sfiducia nei riguardi dei mercati e del loro carattere adattativo (sempre che lo Stato non interferisca, distorcendo il sistema di incentivi) è insomma compensata da una grande fiducia verso i nuovi “ottimati”, gli economisti consiglieri del Principe, che hanno il compito di manovrare le leve che devono far funzionare l’intero sistema. Sullo sfondo di queste difficoltà ci sono questioni propriamente intellettuali. Quella di Keynes è infatti una macroeconomia priva di una fondazione microeconomica: si parla insomma di entità astratte di carattere generale (inflazione, risparmio, ecc.) senza connettere tutto questo in modo stringente agli atti dei singoli. I nomi vengono trasformati in cose e questo conduce nel mondo di Alice nel Paese delle Meraviglie.
Tale struttura concettuale è però figlia di una prospettiva culturale che aveva rigettato non solo i valori vittoriani, ma anche ogni forma di responsabilità. Quando Keynes invita a non preoccuparsi delle conseguenze delle proprie azioni, poiché «nel lungo periodo siamo tutti morti», è palese che la sua attenzione per gli altri è minima. Anzi, inesistente. Questo produce pure esiti economici disastrosi, dato che ognuno è «nel lungo termine» di chi l’ha preceduto, ma all’origine vi sono questioni di ordine etico.
Keynes ammetterà tutto ciò con queste parole: «Ripudiammo completamente la morale, le convenzioni ordinarie e il sapere tradizionale. Eravamo, nel senso stretto della parola, degli immoralisti».

Se oggi si usano i soldi dei contribuenti europei (compresi quelli più poveri) per salvare i conti pubblici degli Stati in dissesto e con essi le banche creditrici, è perché la generazione di Keynes ha progressivamente disgregato quanto restava del capitale morale ereditato dal passato.
Non è sempre in questo modo che declinano le civiltà?

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