IL RICHIAMO GIUSTIZIALISTA

Per marcare la differenza, per sottolineare il cambiamento di rotta della politica di sinistra, Walter Veltroni smise addirittura di nominarlo, riferendosi a Silvio Berlusconi come al «principale esponente della formazione a noi avversa». Anche se fece un po’ ridere, come d’altronde non poche cose riconducibili a Veltroni, la barocca perifrasi rappresentò al meglio la volontà della sinistra di mettere fine all’antiberlusconismo come primario strumento della dialettica politica. Stando alle cifre (elettorali) esso infatti non solo non premiava il Partito democratico, ma, quel che era peggio, favoriva la «formazione ad esso avversa».
È certo che concordando su quella elementare analisi, in principio anche Franceschini ritenesse chiusa la fallimentare esperienza dell’antiberlusconismo, ma fu costretto a riaprirla per via dell’incalzare di quel «nemico a sinistra» che è sempre stato l’incubo della sinistra medesima. E che, attualmente, ha nome Antonio Di Pietro. Politico tanto spregiudicato da sparigliare una delle più sperimentate giocate dei democratici affermando che se si parla di voto utile, l’unico veramente tale è quello espresso a favore dell’Italia dei valori. Tanto populista da raccogliere attorno a sé le schiere pittoresche degli antiberlusconiani irriducibili e la brigata di intellettuali che devono farsi perdonare la mancata promessa di scegliere l’esilio parigino ove l’Italia fosse finita governata da Berlusconi. Quanto basta, insomma, per sottrarre al Pd quel tanto in percentuale che consenta a Di Pietro di braveggiare, da par suo, in area progressista.
Franceschini non è un genio. Buono - e nemmeno tanto - per il piccolo cabotaggio fra le correnti, è di quelli che fra la capra e il cavolo sceglie immancabilmente di salvare se stesso. È dunque nel suo carattere il cercare di rintuzzare l’offensiva di Di Pietro senza trovar di meglio che il fargli concorrenza sul terreno dell’antiberlusconismo, e questo nonostante conosca fin troppo bene la mole di danni che ha provocato al partito del quale inopinatamente è segretario. Per fare concorrenza a uno come Di Pietro bisogna necessariamente mettersi alla sua misura, ovvero scendere molto in basso. Bisogna toccare il fondo. Subito raggiunto prendendo a pretesto una faccenda personale, una vicenda privata - stiamo ovviamente parlando del «caso Veronica» - per inscenare, con la Repubblica nella veste di grancassa, una isterica e ipocrita questione di credibilità politica. Ed è rovistando nel bidone della spazzatura che Franceschini si è volontariamente condannato a circoscrivere la propria azione a una sempre più affannosa rincorsa di Di Pietro, abbandonando così la prospettiva di elaborare il progetto politico che avrebbe dovuto restituire alla sinistra, oggi una armata Brancaleone in rotta, la necessaria fiducia e la supponenza per potersi nuovamente presentare come modello etico, culturale e istituzionale.

Nessuna meraviglia, dunque, che non abbia esitato a precedere Di Pietro nei commenti sulle motivazioni della sentenza Mills, denunciando in tal modo una sinistra - della quale è alla testa, è la testa - ideologicamente decerebrata, incapace di sopravvivere a se stessa se non rappattumando il ferrovecchio dell’antiberlusconismo di stampo giudiziario. Neanche in quello, neanche nell’antiberlusconismo, un po’ di fantasia, un’idea nuova. Una scintilla d’intelligenza.

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