Quando si spengono i ricordi nascono le giornate della memoria. Infatti le memorie più vive non hanno bisogno di essere prescritte per legge. Ma il giorno che ricorda le foibe, il 10 febbraio, nacque dopo decenni di vergognosa omertà. Era vietato parlare delle migliaia di istriani, giuliani e dalmati infoibati o profughi dalle loro terre e del Trattato che le cedeva alla Jugoslavia, per tre ragioni: perché era proibito discutere la spartizione del mondo decisa a Yalta; perché i comunisti italiani avevano scheletri nell’armadio, avendo collaborato con i partigiani titini in quella che le circolari del Pci chiamavano «la tattica delle foibe» e nel far strage di partigiani anticomunisti, come a Porzus; perché dovevamo tenerci buono Tito che si era sganciato dall’impero sovietico. Così le foibe restarono un mistero doloroso. Furono il concentrato feroce di tre guerre in una: la pulizia etnica contro gli italiani, la lotta di classe contro borghesi e possidenti, la guerra ideologica del comunismo contro il nazional-fascismo. Per recuperare l’omissione storica e onorare la memoria delle vittime, è giusto che le scuole, la tv, i testi ora ne parlino.
E tuttavia lasciatemi dire che è malefico identificare la memoria con l’orrore, come accade in queste giornate dedicate ai genocidi. Primo, perché la memoria non può essere monopolizzata dall’orrore e identificata con gli stermini, ma devono trovar posto anche i ricordi storici di eventi positivi.
Secondo, perché la memoria non va esercitata solo con eventi pubblici e tragici ma anche con ricordi teneri e privati, perché la sede dei ricordi è il cuore e non il tribunale. Terzo, perché se ricordare è sempre un tornare sugli orrori, se la storia va studiata solo come teatro del Male, la gente alla fine preferisce dimenticare per continuare a vivere e pensare al futuro. È umano.
A volte, sono salutari anche le giornate dell’oblio.
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