Il ricordo del killer: «Così imparammo a sparare»

Una doppia intervista al Giornale ricostruirà nel maggio del 2007, trent’anni dopo, il clima di quegli anni. «Nata senza papà e cresciuta già morta», fu il terribile racconto di Antonia Custra, la figlia del vicebrigadiere nata un mese e mezzo dopo la tragedia. A risponderle Mario Ferrandi. «Come vede non mi sottraggo: Antonia Custra ha detto che vuole la faccia dell’assassino di suo padre, la mia, da odiare, e io sono qua. Ho letto e riletto l’intervista concessa al Giornale dalla Custra: è uno schiaffo violentissimo, durissimo, che io non voglio attenuare». E poi. «Noi eravamo stati addestrati in cascina a sparare, a difenderci, a contrattaccare: ci aveva insegnato il mestiere uno studente, Roberto Serafini, poi caduto in un conflitto a fuoco con le forze dell'ordine. Quando dico noi, dico una generazione, ma in particolare noi autonomi, autonomi di Rosso, autonomi del collettivo Romana Vittoria. Io, Giuseppe Memeo», che poi sarebbe entrato nei Pac e avrebbe ucciso l'orefice Pierluigi Torregiani, «Marco Barbone», che poi avrebbe sparato a Walter Tobagi, tanti altri che poi sarebbero entrati in Prima linea.

«Portavamo le armi alle manifestazioni ed io ero il capo di quella struttura: di quello che accadde io porto tutta la responsabilità». Quel giorno «erano entrate in azione quattro calibro 7.65: una non fu mai individuata; un’altra era in mano a Maurizio Azzolini». Una era di Enrico Pasini Gatti. Quella di Ferrandi uccise Custra.

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