Il rinascimento di Milano fra lusso e lezioni di stile

La rassegna, intitolata «Il Cavaliere nero», ruota intorno all’omonimo ritratto del Moroni, simbolo dell’eleganza. Esposti anche due quadri dell’Anguissola

Matteo Chiarelli

Milano città della moda. Milano capitale del gusto: oggi come cinquecento anni fa. Se in questi giorni infatti la metropoli vive del clima mondano e raffinato delle sfilate, divenendo il vertice internazionale della moda, non diversa era la situazione nel Cinquecento, quando la città deteneva il primato assoluto nella produzione di tessuti pregiati e nella confezione d'abiti di prestigio, contando addirittura su ottocentocinquanta botteghe sartoriali. A quei tempi i sovrani delle corti di tutta Europa si servivano dei rinomati sarti milanesi e in città nobili e cavalieri sfoggiavano a gara le loro vesti preziose.
Il Museo Poldi Pezzoli (via Manzoni 12), con la mostra Il Cavaliere in Nero (dal domani al 15 gennaio 2006), si propone di ricostruire l'immagine del gentiluomo a Milano nel Cinquecento, il suo abbigliamento, e insieme la ricca produzione della sartoria lombarda. Protagonista dell'esposizione è il Cavaliere in Nero, quadro dipinto da uno dei maestri del ritratto rinascimentale, Giovan Battista Moroni. Legata per testamento al Poldi Pezzoli da Annibale Scotti Casanova, la tela si offre oggi come simbolo della moda europea del XVI secolo. Accanto a questo dipinto, saranno in mostra anche un secondo capolavoro del Moroni, Il sarto, proveniente dalla National Gallery, e due ritratti di Sofonisba Anguissola. Inoltre un abito maschile in due pezzi degli inizi del Seicento e Il libro del Sarto, uno zibaldone di modelli e disegni di vestiti appartenuto nel Cinquecento alla bottega del sarto milanese Gian Giacomo del Conte. Del Cavaliere in Nero, personaggio di cui si ignora la precisa identità, l'abito, dipinto in maniera straordinaria dal Moroni, rivela di certo quale doveva essere l'abbigliamento ideale del cavaliere dell'epoca. L'indumento infatti, a seconda della foggia, del materiale, della tecnica d'esecuzione e del colore del tessuto, era veicolo d'informazioni, e non solo riguardo al gusto estetico del periodo, ma anche alla condizione sociale e al portamento morale di chi ne faceva uso.
La veste diveniva allora simbolo di provenienza, professione, sesso, ruolo sociale e virtù personale, secondo un codice, col passare del tempo, sempre più severo. L'abito nero, emblema di una «moda della sottrazione», rifuggendo gli eccessi e gli sfarzi, alludeva innanzi tutto alla sobrietà e alla discrezione. Ma non solo. Il nero era anche espressione di onore e forza d'animo. Nel Cinquecento allora il colore dei tessuti che distinguevano «l'uniforme» del gentiluomo d'alto rango doveva essere necessariamente il nero. E questa moda, diffusasi in Europa per influenza della corte spagnola di Carlo V, nel corso del secolo successivo venne resa addirittura obbligatoria per gli abiti ufficiali. Sarà solo in seguito, con la Rivoluzione francese, che tutti i rigidi canoni dell'Ancien Regime, compresi quelli sul vestiario, saranno superati.

Nel 1793, nella Repubblica Francese e in tutto il resto d'Europa, si dichiarerà infatti che «nessuno potrà costringere un cittadino o una cittadina a vestirsi in maniera particolare… ognuno è libero di portare il vestito o la guarnizione che gli pare».

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