Ripellino, un emporio di stili e di atmosfere

Riproposto dopo 31 anni dalla prima edizione «Storie del bosco boemo e altri racconti» del grande slavista Fra poesie-racconto, saggi in forma di ballata e falsi d’autore

Ripellino, un emporio di stili e di atmosfere

«Manichìnia era un plesso di partenoni, di templi intristiti di menta di luna, di peristili, di architettura da Pittura Metafisica... Era una notte d’autunno. Nei baròmetri la ballerina rientrava nella sua nicchia, cedendo il posto all’omino con l’ombrello. Avvolte in panni gentili, le dame, così piene di allegrezza da non capire più nella pelle, si avviarono a gruppi verso gli addormentati treni nel gocciolante chiarore lattato della notte settentrionale...».
Viaggia così, incantevole fra Enigmi dell’Ora e Muse Inquietanti, come un quadro abbacinato e concettoso del miglior De Chirico, anzi un lunatico sogno surreale di Magritte o Delvaux, l’Angelo Maria Ripellino delle Storie del bosco boemo e altri racconti, ora ristampate a cura di Antonio Pane da una piccola ma fervorosa casa editrice siciliana, Mesogea (pagg. 160, euro 9,50), a trentun anni di distanza dalla prima uscita einaudiana.
Si parla poco di Ripellino, dei suoi enormi meriti di studioso e slavista principe (nato a Palermo nel 1923, scomparve a Roma nel 1978, dopo aver combattuto fin dalla giovinezza e dai duri anni della guerra con la tubercolosi), del suo estro fumigante e barocco di narratore, e anche dei suoi versi golosi e farciti di splendide citazioni, rimandi, colleganze, profezie e ardimenti concentrici e comparati a tutte le grandi avanguardie europee del Novecento, che indagò e in fondo reincarnò come un irripetibile giocoliere, esteta/esegeta delle lettere e delle arti. A parte le doverose ristampe delle insostituibili antologie sulla Poesia russa del Novecento (1954), o i Nuovi poeti sovietici (1961), e l’eterno successo di un libro cult come Praga magica (1973), compagno obbligato di ogni ardente viaggiatore nella Parigi dell’Est, i suoi numerosi testi creativi o saggistici restano affidati alle amorose cure, e alle chiosate ristampe dei suoi vecchi ottimi allievi (Alessandro Fo, Claudio Vela, lo stesso Pane).
Ma oggi latitano dagli scaffali delle librerie, e annaspano invece sulle bancarelle o nel mare magnum dei Remainder’s dei libri-cardine, degli enciclopedici doni, sfaccettati diamanti cartacei quali Majakovskij e il teatro russo d’avanguardia (1959), Il trucco e l’anima (1965), Letteratura come itinerario nel meraviglioso (1968). Per non parlare della sua produzione lirica, che inanella - fra il ’67 e il ’77 - altre gemme dimenticate come La fortezza d’Alvernia, Notizie dal Diluvio, Sinfonietta, Lo splendido violino verde, Autunnale barocco (parzialmente riprese nel ’90, per Einaudi, in una scelta antologica delle Poesie).
Eppure il suo talento ci manca molto - così come il suo estro, e un indifettibile, inesausto rigore etico. Ripellino fu il primo che non soltanto sdoganò Pasternak poeta, o ci fece conoscere Chlébnikov, Belyj e il suo grande amico Holan (con la collaborazione dell’amatissima moglie Ela, studiosa di letteratura ceca, conosciuta nel ’46 nella «città d’oro», sposata l’anno seguente, e oggi custode quasi angelica della sua memoria), ma prese anche posizione nel ’68 a favore di Dubcek e della Primavera di Praga, contro l’intolleranza, la repressione, insomma la dittatura politica e culturale del peggior Socialismo Reale della Storia, e dell’asfittico, annesso e connesso Realismo di Regime...
Estro ed eticità, fantasia e travaglio s’intersecano anche in queste quattro storie da Manichìnia, Schlemmerlandia, Lukomòrie o Bambellonia che dir si voglia, sconfinanti amabilmente fra i generi, come egli sempre prediligeva ammannendoci deliziose poesie-racconto, e saggi in forma di ballata, sinfoniette, traduzioni perfettamente ricreate come calchi, copie o falsi d’autore, sentenze apocrife, un intero modernissimo trovarobato di illuminazioni: «Hai mai visto, lettore, le automobili-nonne dalle lamiere arricciate come cuffiette e i venerabili treni che arrancano, intarsi di pezzi a malapena tenuti insieme, per il paesaggio di Boemia? Diresti che in quella contrada copiosa di tutti i beni corrano ancora trenini alla Keaton, e ti aspetti che a un punto qualsiasi i passeggeri debbano scendere per cercare i binari smarriti sotto ai vagoni simili a diligenze».
Tre racconti finali corredano il tutto permettendoci il brivido della variazione siculo-kafkiana («Lo scarafaggio» dell’arciprete di Bivona), la buffa parabola laica («Gli uomini che invocano la pioggia»), o una sorta di incursione fra manierata leggenda francescana e umorismo del Witz ebraico, l’arcano e tagliente motto di spirito, ciò che Freud definì come il contributo dato alla comicità dalla sfera dell’inconscio («Il sogno di frate Anselmo»). Il tutto condito e servito con una lingua, diceva bene Spagnoletti, «il cui colore di tipo “chagalliano” riflette una costante inclinazione fantastica e grottesca, il piacere di immergersi in un universo pluridimensionale, dove conta, o potrebbe contare, ai fini dell’espressione, il nonsense».


Lucidissimo visionario, maestro di slavistica ma anche di ogni vorticosa sinestesia, Angelo Maria Ripellino ha coniugato, come lui stesso spiegava, «Gòlgota e clownerie», ha viaggiato nei decenni e nei secoli, nei movimenti e negli scismi crudeli della Storia, fra le isole e le isbe dei libri, steppe e tundre, mari del Nord e boschi boemi, e tutti i cubofuturismi passati presenti e futuri, come un’inopinata, benefica slitta di Santa Claus che lasci i regni scandinavi della neve e del vento, aurore boreali e repubbliche baltiche, la Groenlandia della magia e dei folletti, la Russia dei cosacchi e dei Pope, e sorvoli di fabula in fabula, di dolore in dolore, di lager in gulag, fra cime di ghiaccio e marzapane, bufere di neve e briciole di meringhe, cupole e pinnacoli gotici, reticolati e pinacoteche, teatri neoclassici e piazze rosse, fino ad atterrare e lambire i lidi mediterranei della sua avita Sicilia, assolati e salati, il barocco munifico, affollato ma solitario, che riplasma, indora anche la fede in un rito seducente e sedotto, nel Mistero Buffo, doloroso o gaudioso della vera Poesia: «Sono uno zolfanello, ardo di botto,/ in un prestissimo consumo il mio dappoco./ Che brillìo, che impostura, che giuoco,/ ma quanta fatica, mio Signore, c’è sotto».

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