Risotti e cotolette l’estasi meneghina per i buongustai

Giorgio Scaglia

In qualche famiglia si fa ancora la cassoeula, alcuni ristoranti hanno in menù il lesso o l’ossobuco ma è innegabile che la cucina milanese, quella vera, resti una faccenda per pochi eletti. La tendenza all’uso del burro, i lunghi tempi di cottura, la prevalenza del riso rispetto alla pasta e della carne rispetto al pesce la rendono poco al passo con questi tempi di diete a punti, senza contare che molte specialità sono di esecuzione tutt’altro che semplice. Risultato: sulle tavole di casa i piatti locali non sono molto frequenti e in città le trattorie autenticamente meneghine si contano ancora sulle dita delle mani.
Eppure il patrimonio gastronomico di Milano è incredibilmente ricco e stimolante. Guardando i piatti più tipici, emerge la loro complessiva sobrietà anche nelle preparazioni più complicate, tipica di una cultura che non amava gli eccessi. In più, quella milanese è anche una cucina d’orto, quella oggi tanto esaltata dai dietologi, nata dalla povertà ma capace di creare cose splendide come i minestroni, le zuppe, i pancotti. Molte ricette nascono dall’antica gastronomia di corte, altre da quella borghese o contadina: nel tempo si sono semplificate e alleggerite, ma l’anima è rimasta quella.
Dicevamo del riso, che a Milano ha sempre dato il meglio con qualità pregiate come l’Arborio, il Vialone e il Carnaroli. Il risotto giallo viene codificato all’inizio dell’800 e accanto al procedimento classico fatto di cipolla, zafferano, burro e parmigiano, ha sempre ammesso molte varianti, dal vino rosso al midollo, dal grasso d’arrosto ai funghi fino al foglio d’oro zecchino di Gualtiero Marchesi, che a suo tempo scandalizzò i difensori dell’ortodossia culinaria. Voi fatelo come vi pare, all’onda o al salto, tanto sarà sempre eccezionale. Tra i ricordi d’infanzia c’è anche il riso al latte, soave e delicato, quasi agrodolce. Considerato a torto più digeribile degli altri, era piatto obbligatorio in tempi di influenza.
Una ghiottoneria che rimanda ai tempi delle elementari erano i mondeghili. In pochi li chiamavano così, per i più erano semplicemente «le polpette» e la nonna le faceva con le patate lesse, a cui aggiungeva carni e salumi tritati più eventuali avanzi recuperati in fondo al frigorifero. Poi legava il tutto con un uovo crudo e abbondante parmigiano e ricavava delle palline leggermente schiacciate che venivano infarinate e passate nel burro spumeggiante. Al primo boccone il cuore balzava per la felicità ma anche mangiate il giorno dopo davano grande gioia.
Da buona milanese di una volta, la nonna non sapeva fare la pasta ma la sua cotoletta era da gran premio. Prendeva la carne in un piccolo negozio in corso Genova, che oggi non c’è più. Il macellaio parlava in dialetto e scriveva il conto con una matita che teneva infilata dietro l’orecchio. Erano fette di vitello piuttosto alte, con l’osso, che lei batteva appena per ammorbidire le parti nervose. Bagnate con l’uovo sbattuto, venivano passate e pressate nel pangrattato poi fritte nella spuma di burro per diventare morbide e croccanti.
Tra i pochi indirizzi sicuri della cucina meneghina c’è il Gran San Bernardo, appena dietro il Monumentale, il ristorante aperto nei primi anni ’70 dal grande Alfredo Valli che per anni era stato chef e anima indiscussa del Biffi Scala. Custode inflessibile della tradizione, raccontava spesso di quel giorno in cui sua madre gli aveva insegnato a cucinare le rane o di quando Maria Callas, finita l’opera, si sedeva al solito tavolo e gli ordinava grandi filetti alla griglia che poi mangiava di gusto. Alfredo ha lasciato per sempre i fornelli ma la sua lezione continua in via Bergese, portata avanti con lo stesso entusiasmo dai suoi bravissimi allievi.


Anche Al Matarel di corso Garibaldi, la sapiente mano di Marco Comini offre da decenni tutto il repertorio meneghino fatto come va fatto: qui ossobuco, rustin negà, nervitt hanno il sapore originale delle cose buone che il tempo non è riuscito a cancellare.

Commenti