Ritorna lo strapotere sindacale

Due considerazioni sulla nuova compagine ministeriale del governo Prodi. Oggi mi occupo di Fabio Mussi, ministro dell’Università e della ricerca. La settimana prossima mi occuperò di Francesco Rutelli, ministro dei Beni culturali.
Nell’altro governo di centrosinistra, quello che iniziò il suo quinquennio nel ’96, era ministro dell’Università Luigi Berlinguer. La sua riforma fu una presa d’atto della perdita progressiva della qualità e del valore degli studi accademici, e il ministro legittimò questa decadenza con una serie di provvedimenti che portarono alla licealizzazione dell’università. Berlinguer puntò al ribasso e sulla sindacalizzazione. Si moltiplicarono come funghi gli insegnamenti accademici e si perse ogni gerarchia di valore degli studi: l’esame di letteratura italiana si poteva, per esempio, sostituire con la storia del cinema. Non ci fu più una regola certa nel reclutamento dei professori, e tutti, proprio tutti, poterono diventare professori attraverso benevolenze sindacali e superficialità legislative. Così divenne malinconicamente realtà quella battuta di spirito di Italo Calvino con cui negli anni Sessanta provocatoriamente descriveva l’Italia come il Paese dove il 95 per cento della popolazione è composta da docenti universitari.
Addio merito, addio competitività: grande attenzione era invece dedicata all’aumento di iscrizione dei giovani, irretiti e illusi dai più fantasiosi corsi di laurea che promettevano specializzazioni professionali inesistenti quanto idiote. Quello che non riuscì a fare il movimento studentesco del ’68, fu concluso gloriosamente dalla riforma Berlinguer.
Il ministro Moratti, ereditando questa sonnolenta e inebetita università, cercò di dinamizzarla, cambiando completamente l’idea stessa della funzione degli studi accademici, del ruolo dei docenti e della ricerca. Venne perciò aumentato del 13,5 per cento il finanziamento ordinario dell’università, passando da 6.162.880.000 euro del 2001, anno in cui Moratti assunse la responsabilità del ministero, a 7.028.000.000 nel 2005. Nello stesso tempo furono incrementati gli investimenti dello Stato per la ricerca fino a raggiungere l’attuale 0,72 per cento del Pil, contro una media europea dello 0,68 per cento. Un esempio, tra i tanti degli effetti di questa ripresa della ricerca negli istituti scientifici italiani è l’aumento del 47 per cento, in quattro anni, dei brevetti.
L’università lentamente tornava ad essere un centro decisivo dello sviluppo del Paese. Continuerà per questo cammino? Temo di no.
Mussi appartiene alla sinistra radicale dei Ds: affidargli l’università è un preciso segnale culturale che ci dà due indicazioni. La prima è che l’università non è ritenuta importante dal governo Prodi. La seconda è che nell’università ritornerà quell’ideologico conformismo sindacale che promuoverà passaggi di carriera del personale docente attraverso leggine apposite e che per gli studenti abolirà ogni principio di valutazione meritocratica.
Abbiamo ascoltato negli ultimi cinque anni l’opposizione di sinistra tuonare perché l’Italia non si impegnava nell’innovazione e nella ricerca. Le bocche dei suoi soloni si riempivano di invettive moralistiche che denunciavano l’assenza di competitività del Paese, l’abbandono della ricerca, la fuga dei cervelli. Come si fa a reclamare l’innovazione, la ricerca, la competitività e poi appena il centrosinistra assume responsabilità di governo si affida all’ala radicale della coalizione proprio il ministero dell’Università e della ricerca? È evidente che il ministero dell’Università sia stato considerato una modesta poltrona da assegnare a una parte politica poco rilevante della coalizione e tuttavia andava ripagata per il semplice fatto di esistere.

È evidente che il centrosinistra abbia maggiore interesse a stabilire un rapporto con le componenti sindacali dell’università più regressive e antimoderne anziché sostenere la vitalità competitiva della formazione accademica e della ricerca.

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