La rivoluzione affonda la Borsa Tremano Eni, Impregilo e Unicredit

La guerra civile che sta sconvolgendo la Libia mette a dura prova i nervi di Piazza Affari, preoccupata di veder franare insieme alla dittatura del Colonnello Gheddafi la grande rete d’affari che collega l’Italia al Paese nordafricano: l’indice Ftse-Mib ha ceduto il 3,59%, appesantito dalle aziende più esposte ai rovesci di Tripoli.
Dalla polveriera maghrebina dipendono infatti non solo gli equilibri del mercato mondiale del petrolio (volato a 105 dollari al barile), ma il bilancio dell’Eni (nel 2009 il 10% del gas italiano proveniva dalla Libia) e buona parte degli ordini del nostro sistema industriale: anche grazie alla sigla del «Trattato di amicizia» del 2008, si stima un interscambio di oltre 12 miliardi. Cui si aggiungono gli ingenti pacchetti azionari che Gheddafi in questi anni ha stipato nelle casseforti dei fondi sovrani reinvestendo i proventi del greggio, fino a diventare il primo azionista di UniCredit e a stabilire legami con altre realtà strategiche come Finmeccanica (2% del capitale) o la stessa Eni.
In breve la Libia, colpita anche dalla scure della casa di analisi Fitch, rappresenta un potenziale rischio di sistema per l’economia italiana, da subito captato sia dalla Borsa sia dai titoli di Stato, in difficoltà rispetto ai bund tedeschi. Al tappeto le quotazioni dei gruppi più attivi in Libia: da Impregilo (-6,1%) a Eni (-5,1%), da Ansaldo (-5,1%) a UniCredit (-5,7%) e Saipem (-4%), impegnate come altre multinazionali a organizzare ponti aerei per riportare in Patria perlomeno gli addetti non essenziali e i loro familiari. Lo stesso che era accaduto qualche settimana fa in Egitto prima della caduta di Mubarak. Il gruppo energetico di Paolo Scaroni, peraltro abituato a operare in Paesi a rischio, ha assicurato di non avere al momento problemi agli impianti e di essersi comunque attivato per «rafforzare ulteriormente» le misure di sicurezza: in Libia dal 1959 l’Eni, che per «costituzione» è un avamposto dello Stato italiano, è il primo operatore internazionale di idrocarburi con giacimenti off shore nel Mediterraneo e nel deserto, da cui ricava 244mila barili di petrolio al giorno.
Il timore comunque esiste, come ha ammesso il presidente di Impregilo, Massimo Ponzellini, per cui Tripoli significa circa un miliardo di commesse per la realizzazione di grandi infrastrutture: «C’è qualche preoccupazione - ha detto - ma siamo ancora ottimisti, perché abbiamo segnali che i nostri cantieri non dovrebbero soffrire». La Libia significa grandi commesse anche per Finmeccanica e Saipem, la cui cordata ha vinto il primo lotto dell’autostrada litoranea pretesa da Gheddafi come indennizzo del periodo coloniale. La probabile caduta del regime, dopo quarant’anni di potere, lascia però soprattutto aperto il problema di chi deciderà sugli investimenti accumulati dal Rais. A partire da Unicredit, la maggiore banca italiana e «ponte» di collegamento verso Mediobanca e quindi Generali, Telecom e Rcs. Lo scorso anno Tripoli si è infatti portata oltre il 7% di Piazza Cordusio schierando sia il fondo Lia sia la Banca Centrale, con il risultato di scavalcare i soci storici italiani: le Fondazioni di Verona, Torino e Carimonte. A cercare l’appoggio di Tripoli era stato l’ad Alessandro Profumo, che ha poi pagato la lotta intestina che ne è seguita. Il successore Federico Ghizzoni si è detto ieri tranquillo per le sorti dell’istituto e lo stesso ha fatto il vicepresidente Fabrizio Palenzona. Ma il clima appare diverso già nelle stanze della «sua» Crt: «Siamo abbastanza preoccupati». «Certo qualche rischio c’è per la partecipazione, ma prima di prendere decisioni chiariamoci le idee», ha sottolineato il presidente dell’ente torinese Andrea Comba aggiungendo che ci potrebbe essere una consultazione tra le Fondazioni.

Il problema dovrebbe essere oggi sul tavolo del cda di Unicredit, dove siede come vicepresidente il governatore della Banca centrale, Farhat Omar Bengdara: Piazza Cordusio ha anche ottenuto una licenza per aprire una rete di filiali nel Paese.

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