Politica

La rivoluzione liberal-popolare

«Ecco s’avanza uno strano soldato» era l’inizio di una vecchia canzone rivoluzionaria. Lo strano soldato era l’espressione del proletariato «che porta alla riscossa la schiava umanità». Sono cambiate le parole, i tempi e la retorica, ma di nuovo «ecco s’avanza un altro soldato». Chi è? È lo spirito rivoluzionario della democrazia compiuta. È il cittadino elettore che non accetta più di farsi trattare come i contadini tedeschi che ricevevano dal signorotto feudale una moglie già gravida. Il nuovo cittadino è quello che appartiene alla Casa delle libertà (nome che è rimasto radicato e unitario nell’elettorato) si è sentito gratificato per il voto negativo al Senato sull’Afghanistan, perché si è sentito rispettato e persino obbedito.
Berlusconi disse dopo quel voto: «Non potevamo far diversamente perché gli elettori non ci avrebbero capito». Qui sta la prova, positiva, della frattura tra la posizione di un caro e stimato amico come il senatore Jannuzzi che privilegia l’arte della politica, le leggi della politica; e quella della nascente rivoluzione italiana che sempre più si sta profilando come una contestazione irreversibile al verticismo dei partiti, finora indispensabile, ma ormai rifiutato. Secondo questa forte tendenza popolare e liberale i partiti cessano di avere carta bianca per agire per sovrana e autonoma iniziativa (magari astutissima) se in contrasto con il comune sentire della base (il caso Afghanistan).
Due politiche ormai fanno infatti a pugni fra loro. Quella di vertice che dice: «Ragazzo, lasciaci lavorare». E quella degli elettori che si sentono anche azionisti della libertà e che replicano «Lavorerai dopo avermi ascoltato». È un tema antico, anzi il vero tema del conflitto fra la politica innervata di idealismo forte, e la politica intesa solo come tavolo di uno scaltro gioco. Quando nel 1919 i grandi della Terra discussero l’assetto dopo la Grande Guerra, nessuno in Italia capì che il duro presidente americano Woodrow Wilson faceva sul serio quando scaraventò sul tavolo persino l’arroganza degli ideali di democrazia e di autodeterminazione che resero «mutilata» la vittoria italiana. E il premier Vittorio Emanuele Orlando, con il ministro degli Esteri Sidney Sonnino, che rappresentavano e conoscevano soltanto la politica manovriera, sbagliarono tutto, andandosene. L’ordine della democrazia ideologica era arrivato come una mazza ferrata e ci volle un’altra più feroce guerra perché il concetto diventasse chiaro.
Dove voglio andare a parare? Alla legge elettorale che deve garantire il bipolarismo, affinché nessuno restauri l’ancien régime del doppio forno. Deve permettere di indicare il premier, ma – ecco il punto – lo strano soldato, il cittadino elettore, recalcitra se privato del diritto di dare preferenze. Non vuole sposare una moglie già incinta di un altro. È un sogno forse irrealizzabile in un sol colpo, perché sono i partiti, ovvero i leader, che scelgono chi partecipa e, più o meno, chi verrà eletto. Ma il vento della rivoluzione liberale in atto va preso di dritta e non di traverso: è un vento che porta alle primarie, alla scelta dal basso, alla voce del popolo. E questo ci sembra un formidabile passo avanti che non tollera retromarcia, pena la fine dell’intera speranza di democrazia compiuta.
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