Una pensione di cinquemila euro per quindici anni di lavoro: nei privilegi della Casta, anche il professor Stefano Rodotà ci sta calato appieno, senza che questo sminuisca il suo prestigio, l' appeal , il carisma, l'integrità che ne fanno l'eterno candidato alla presidenza della Repubblica di quel pezzo d'Italia che sta tra il radical chic, gli orfani del comunismo e i talebani di Libertà & Giustizia. D'altronde se l'autostima e un certo sussiego sono requisiti fondamentali per diventare presidente della Repubblica, era inevitabile che in questi giorni in cui impazza il toto Quirinale tra i nomi più gettonati tornasse a spiccare quello di Rodotà, tra endorsement di corrente ed entusiasmi via Facebook: anche se Giancarlo Magalli, presentatore televisivo, ha mille sostenitori più di lui sul social network, e addirittura ottomila in più nel sondaggio del Fatto quotidiano (ma la Rete, si sa, ha anche un'anima goliardica). Così c'è da stare sicuri che durante il conclave che si apre a Montecitorio il prossimo giovedì, tra le schede che Laura Boldrini scrutinerà in diretta tv il voto «Rodotà» echeggerà più volte: a conferma del fascino che l'austera figura di civil servant del professore calabrese continua a esercitare, ma anche di una certa difficoltà della politica a partorire nomi nuovi.
Nome nuovo, indubbiamente, Rodotà non lo è: per dare un'idea, quando lui sbarcò per la prima volta a Montecitorio, nel 1979, Matteo Renzi aveva quattro anni. D'altronde il professore viaggia ormai verso l'ottantaduesimo compleanno, e sulla sua età non verdissima Beppe Grillo si espresse in modo impietoso nel 2013, appena due mesi dopo averlo candidato al Quirinale: «Ottuagenario miracolato dalla Rete», lo definì. In realtà, dal voto via internet Stefano Rodotà era stato miracolato solo in parte, perché nei sondaggi si era piazzato appena al terzo posto, dopo Milena Gabanelli e Gino Strada, e i 5 Stelle lanciarono la sua candidatura solo perché i primi due si erano defilati. Rodotà accettò di buon grado il ruolo di candidato di ripiego, in Parlamento incassò voti anche da Sel e da parte del Pd, salì fino a quota 250, insomma un pensierino al Colle ce lo fece. Poi finì come finì. Quando di lì a poco Grillo lo prese a male parole, Rodotà se ne risentì, prima disse «non rispondo», poi ci ripensò e rispose con una intervista all' Unità. «Gli insulti? Inaccettabili, visto il mio tentativo di dare un contributo». E ribadì: «Quel che mi sta a cuore è la coerenza delle mie idee».
La coerenza innanzitutto: Rodotà è fatto così, non si concede il beneficio del dubbio, e un suo ripensamento è più improbabile di un suo sorriso. Fermamente convinto di essere dalla parte della ragione, è passato attraverso la militanza radicale, la Sinistra indipendente, il Pds, il Pd: un politico di lungo corso, ma sempre con l'aria di chi sta un passo di lato alla mischia e un metro sopra alle miserie del Palazzo. Alla politica ha indubbiamente dato tanto, ma parecchio ha anche ricevuto. È stato deputato ininterrottamente dal 1979 al 1994, e queste quattro legislature (anche se l'ultima durò assai poco) gli garantiscono oggi una serena vecchiaia, visto che incassa ogni mese una pensione di 4.992 euro netti. Ma dal punto di vista economico le prebende maggiori le ha avute quando ha coronato il suo sogno di diventare il primo Garante per la privacy: posto che riteneva spettargli di diritto, visto che proprio lui si era battuto perché l'Italia si dotasse di un'autorità che vigilasse contro le intrusioni del Grande Fratello. Il 31 dicembre 1996 venne istituita l'authority, pochi giorni dopo il governo Prodi nominò Rodotà al vertice dell'ente, una carica prestigiosa e ben retribuita: al Garante toccava lo stesso stipendio del primo presidente della Cassazione, ovvero il funzionario pubblico più pagato d'Italia. Andare al di sopra del presidente non si poteva, Rodotà ottenne di arrivare almeno alla pari: 284 milioni di lire all'anno. Rimase all'Authority otto anni. I suoi successori se la passarono peggio, perché la parità con la Cassazione si erose un po' per volta, tanto che l'anno scorso il Garante Soro si è dovuto «accontentare» di 240mila euro, mentre il primo presidente degli ermellini saliva fino alla mirabolante quota di 311mila.
Ma ben più che sul fronte economico, la guida dell'Authority ha reso a Rodotà in termini di potere e di prestigio. Sotto la sua guida, il Garante si è trasformato in un cane da guardia pronto a intervenire ogni qualvolta il bene supremo della riservatezza degli italiani è stato messo a rischio, una lotta senza quartiere che dalla giusta difesa dell'intimità dei cittadini è diventata una sorta di ossessione, un tormentone che insieme ai milioni di grotteschi moduli che firmiamo senza leggerli ha avuto conseguenze assai più concrete: come quando in nome della privacy sono state pesantemente limitate le banche dati delle compagnie telefoniche, creando gravi difficoltà nella lotta al crimine. I moniti del Garante, sotto la guida di Rodotà, sono diventati un ritornello che ha condizionato la vita degli italiani negli aspetti più disparati, dalle code all'Asl ai tabelloni delle pagelle.
Il diritto alla privacy, d'altronde, per Rodotà è solo uno dei tanti diritti che gli italiani si vedrebbero negare quotidianamente. E per i diritti il professore ha una sorta di venerazione. Che accanto ai diritti esista la categoria - anch'essa sancita dalla Costituzione - dei doveri, e che agli italiani spesso scarseggi più il senso del dovere che la coscienza dei diritti, a Rodotà non sembra risultare. Sulla teorizzazione, quasi sulla santificazione dei diritti ha costruito una carriera e ha prodotto un intero scaffale di libri, «Libertà e diritti», «Elogio del moralismo», «Il terribile diritto», e via di questo passo, fino a «Il diritto di avere diritti». L'ultima sua fatica, «Solidarietà, un'utopia necessaria» (pubblicato da Laterza, di cui Rodotà è anche consigliere d'amministrazione: praticamente, un caso di self publishing ) casualmente non ha nel titolo la parola «diritti», ma di fatto picchia anch'esso sempre sullo stesso tasto.
Anche davanti alla strage di Parigi, Rodotà - lo ha scritto il 15 gennaio su Repubblica -si è preoccupato che per dare la caccia ai terroristi si rischi «lo sbaraccamento della tutela della privacy», ha messo in guardia contro la «pesca con lo strascico di masse di dati» e se l'è presa con le «ingannevoli rassicurazioni dell'opinione pubblica con restrizioni di diritti, alla prova dei fatti inutili e pericolose». Diritti, diritti, diritti: se mai approdasse al Quirinale, nel suo discorso di fine anno si può stare certi che non parlerebbe d'altro.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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