ROMANZI ITALIANI Ecco i libri per uscire dall’Età dell’Oro

Basta con catastrofismi e nostalgie: anche il presente ci offre alcuni narratori di ottimo livello

Capita di leggere sempre più spesso parole di rimpianto per il tempo che fu. Saremmo passati dall’Età dell’Oro, identificata con un Novecento nobile estintosi alla fine degli anni ’70, ad un’età minuscola fatta di metalli più vili e ossidabili. Cordelli, Ferroni, Berardinelli, Luperini, Mengaldo, Fofi, Guglielmi e naturalmente primo ed ultimo Arbasino ammettono, alcuni apertamente, altri a mezza bocca, di provare nostalgia per un’epoca nella quale era possibile riunire attorno ad un tavolo... e qui a seguire una lista formata dai membri più illustri del proprio canone, nel quale non mancano mai alcuni abitués: Pasolini, Moravia, Sciascia, Manganelli, Calvino, Landolfi.
Poiché vivremmo in un’epoca stanca che non genera grandezza, la prognosi tende all’infausto: non ci si limita a riconoscere che oggi, a differenza, mettiamo, che nel 1965, manca una compagine altrettanto folta di bravi narratori; o che finanche i migliori fra i letterati di oggi sono probabilmente meno bravi dei letterati di ieri. No, si dà il bando alla statistica alludendo al cataclisma, a un drammatico rovesciamento di sorti. Si ingiunge di battere bandiera bianca, ci si vanta di non leggere romanzi freschi di stampa. Le opere recentemente pubblicate sono trattate alla stregua di oggetti anacronistici o patetici, che in barba alla morte della letteratura perseverano cocciutamente nell’esporsi nelle librerie.
Ora, per quanto ci riguarda non abbiamo difficoltà ad ammettere che l’epoca tramontata sia stata, per molti versi, eccezionale. Nemmeno ci stupiamo che tra i letterati sia tornato di moda il vezzo di vivere il presente come postfazione a trascorsi capolavori: gli uomini hanno sempre dislocato la rivelazione della verità, l’esperienza fondamentale e il compimento dei tempi immancabilmente prima o dopo del qui ed ora, in un passato leggendario remoto a sufficienza perché non saltino fuori troppi testimoni scomodi, o in un domani tanto lontano da non poter smentire nessuno quando arriverà il giorno del disincanto. In questo vizio senile d’altra parte non indulgono solo gli intellettuali: esso accomuna infatti calciatori in pensione ed ex-fascisti, prìncipi dalla torre abolita e vetero-rivoluzionari eternamente caracollanti sui gradini di Valle Giulia.
Tuttavia, sebbene sia consigliabile essere comprensivi, per questo come per altri vizi minori, ci è sembrato infine che il presente letterario non meritasse accuse tanto pesanti. Il falsetto del grande criminale brechtiano ci suggeriva una lettura più conciliante: das war so schön, aber heute geht es auch. Epoca indimenticabile, la trascorsa: ma anche oggi non va poi così male. Quella pleiade di romanzieri ormai possiamo solo sognarla: ma perché ignorare i pochi libri d’oro che nonostante tutto continuano ad apparire? Non sarebbe più ragionevole, considerata sia la penuria di capolavori, sia le pressioni dell’editoria in direzione dell’appiattimento, appena è pubblicato un romanzo degno di questo nome, festeggiarlo, metterlo accanto ad altri libri buoni e insomma fargli tanta pubblicità? Deprecare il deserto in cui vivremmo danneggia infatti tutti gli scrittori che hanno saputo meritarsi il rispetto per il loro lavoro; un lavoro, si badi, svolto sovente con un occhio alle parole d’ordine, ai suggerimenti e agli stimoli mandati dai suddetti scrittori e intellettuali prima della loro tardiva conversione al culto delle apocalissi.
Deve essere però altrettanto chiaro che la radice di questo ingeneroso fin de non recevoir non deriva solo dalla stanchezza, dalla nostalgia e dalla pigrizia dei critici; e nemmeno solo dalla protervia degli editori. Quando ciò che è forte appare inerte, quando il talento letterario di Antonio Franchini o di Ferruccio Parazzoli è percepito ma, inspiegabilmente, non modifica il panorama, quando opere ambiziose e riuscite come quelle di Alberto Garlini o di Giancarlo Buzzi, chissà perché, non fanno testo, la causa va cercata in un equivoco culturale, in un nefasto grumo di paralogismi. Un grumo di paralogismi, ecco qualcosa che difficilmente darà il titolo ad un articolo di giornale; ma è proprio per tentare di sciogliere quel grumo che ne abbiamo isolato gli elementi. E visto che la saggezza consiste nel separare i problemi risolvibili dalle condizioni immutabili, cominciamo col riconoscere che attaccare l’industria editoriale o la temperie nella quale viviamo equivale a combattere i mulini a vento. Ciò che invece si può fare è rimuovere gli ostacoli ideologici che impediscono di dare a Cesare quel che è di Cesare.
Crediamo che quattro stratagemmi siano sufficienti per farla finita con l’Età dell’Oro. Per cominciare, bisogna accettare fino in fondo l’idea che la stagione delle avanguardie sia tramontata. Questa, che dovrebbe essere un’ovvietà, è invece una bestemmia per chiunque non abbia mai smesso di pretendere che gli scrittori «estendano al mentale il procedimento della doccia scozzese», come affermava Breton. Si continua ad attendere il capolavoro inaudito, l’opera sconvolgente, in una parola lo choc; non a caso sette risvolti di copertina su dieci sembrano promettere, più che un’esperienza estetica, i prolegomeni per una visita al pronto soccorso. Bene, abbandoniamo questo atteggiamento puerile: oggi non è più possibile ricavare plusvalore dalla deliberata violazione delle regole perché esse sono già state violate tutte e hanno perso ogni perentorietà. La fine degli aspetti vincolanti della tradizione fa tutt’uno con la fine degli aspetti redditizi dell’anticonformismo letterario.
Il secondo passo consiste nel distinguere accuratamente tra opere e sistema mediatico. Mai lasciarsi influenzare dal secondo: giornali, radio e tv sono quasi sempre storte casse di risonanza che amplificano solo le voci meno complesse, lasciando le altre vibrazioni stentare e morire sulle corde. Smettiamo di riecheggiare queste risate di rame, questi applausi registrati: meglio andare in libreria e fare da sé.
Accorgimento numero tre: ignorare sia il romanzo postmoderno, sia quello minimalista. Il primo, centrifugo, è uno stile da artificieri: i romanzi postmoderni somigliano ad esplosioni nella foresta cui nessuno assiste, prive della più piccola conseguenza. Il secondo, centripeto, è invece una sorta di buco nero: facilmente imitabile, demoltiplica il talento letterario fino a trasformarlo in un ronzio inessenziale, sordo e deprimente. Entrambi gli stili rivelano in chi ricorre ad essi una straordinaria mancanza di ambizione.
In quarto luogo dobbiamo immaginare che gli scrittori non abbiano età, strappare le loro carte di identità. È l’unica maniera di contrastare una rovinosa serie di neutralizzazioni: i vecchi non contano perché appartengono al mondo di prima della rivoluzione, e i giovani perché li si pubblica con la consapevolezza che la letteratura giovanile è una riserva indiana dove valgono specifici criteri di valutazione (per esempio l’insulsaggine chiassosa diventa frizzante semplicità). Se poi un autore meno che quarantenne risponde piccato «giovane sarà lei», lo si tratta da marziano. E gli scrittori tra i quaranta e i sessant’anni? Sono irrilevanti perché fanno crollare la tesi secondo cui oggi non può nascere un grande romanzo italiano; non ci si cura di loro, così come don Ferrante non si curava della peste perché, non essendo né sostanza né attributo, non poteva esistere.
Ora che ci siamo sbarazzati di questi ostacoli alziamo lo sguardo e diamo un’occhiata al paesaggio: non è migliorato? Arbasino vanta i suoi Gadda, Landolfi e Moravia? Ricordiamogli che negli ultimi cinque anni (non sono molti, cinque anni, nelle storie letterarie) hanno pubblicato opere rilevanti lo stesso Arbasino, La Capria, Malerba, Bonaviri. Dell’amore di Giancarlo Buzzi, edito nel 2004, è un capolavoro assoluto. Via degli inganni di Giancarlo Orsenigo non teme il confronto con Lo straniero di Camus. Cronaca della fine di Antonio Franchini è un libro magnifico. Il Sandokan di Nanni Balestrini ha una carica di denuncia che nessuno può mettere in dubbio o considerare inferiore per incisività e opportunità a tanti scritti pasoliniani.

E il prezioso diario di Silenzio, si vive di Enzo Muzii? E una primavera in cui esce Nel condominio del corpo di Valerio Magrelli, o I confini di Torino di Dario Voltolini o Il tramonto sulla pianura di Guido Conti, non è già abbastanza fiorita? Facile, rimpiangere l’Età dell’Oro: basta distrarsi e scegliere come indici dello stato attuale della narrativa italiana i libri sbagliati.

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