ROVETTA Ecco i veri colpevoli

Il 28 aprile ’45 l’uccisione di decine di militi di Salò fu l’esito di una lotta di potere fra partigiani

I partigiani contro i patrioti. L’anima ufficiale della Resistenza contro quella non ortodossa. Uno scontro di potere all’interno del movimento di liberazione bergamasco con una posta altissima: il destino di 43 militi di Salò appartenenti alla famigerata legione Tagliamento. Quarantatré soldati che infine saranno fucilati. Senza pietà.
È il 28 aprile 1945, la guerra è già finita, anche in quella terra. I fascisti si sono arresi e hanno consegnato le armi, ma quel giorno al cimitero di Rovetta si scatena il finimondo: le armi sparano, sparano, sparano. Quella mattanza, uno degli episodi più lugubri nell’album del sangue dei vinti, era stata letta e catalogata come il frutto inevitabile dell’odio, nel clima generale di resa dei conti. E la responsabilità ultima era stata addossata a un personaggio misterioso, agente dei Servizi segreti inglesi: il leggendario Moicano.
Ora in un documentatissimo libro, Il Moicano e i fatti di Rovetta (Medusa, pagg. 368, euro 19,80), Grazia Spada dà finalmente un nome e un volto al Moicano, grazie a un lavoro di scavo negli archivi inglesi, e contemporaneamente pesca fra le carte della Resistenza, ridisegnando così quella giornata fino all’agghiacciante conclusione: la decisione di uccidere quei ragazzi inermi non fu presa dal Moicano, che pure ebbe la sua responsabilità, e certo non fu avallata dall’intelligence britannica. No, fu piuttosto la scelta lucida dei partigiani della brigata giellina «Camozzi» che in quel modo vollero ristabilire la loro autorità e il loro potere sui cosiddetti patrioti locali i quali, a sorpresa e fuori dalle gerarchie canoniche del Cln, avevano giocato un ruolo fondamentale nella liberazione della Valle Seriana dal nazifascismo.
I destini del Moicano, degli uomini della «Camozzi» e della «13 Martiri» s’incrociano in quelle convulse ore a ridosso del 25 aprile. Il Moicano - come ci rivela l’autrice che ha aperto a Londra i file contenenti la sua biografia - è un italiano fascinoso e carismatico: si chiama in realtà Paolo Poduie. È nato a Rovigno, in Istria, ha studiato medicina senza laurearsi, è entrato nelle file della Resistenza e ha raggiunto posizioni importanti. Poduie diventa un capo garibaldino a Padova, poi però qualcosa va storto e i compagni lo condannano a morte per una qualche colpa non meglio definita. Lui cambia aria e lungo la strada che lo porta verso Est, incontra il capitano neozelandese John Heslop, della New Zealand Expeditionary Force, il quale lo mette in contatto con il Soe, lo «Special operations executive» britannico. Il Soe, nato da un’idea di Churchill, è un organismo di frontiera, in grado di favorire azioni di spionaggio e sabotaggio dietro le linee nemiche, in collaborazione con i movimenti locali della Resistenza.
Poduie incarna questa natura double face: dopo esser stato addestrato in Puglia, nell’estate del ’44 torna alla resistenza e ai garibaldini, mantenendo il collegamento con l’intelligence inglese. Nell’aprile ’45 è in Valle Seriana alla testa della brigata garibaldina «13 Martiri». La «13 Martiri» e la «Camozzi» si preparano alla liberazione con ansia: in quelle settimane non sono riuscite a portare a termine operazioni rilevanti, sono rimaste nell’ombra.
A Rovetta, invece, in quelle giornate di fine guerra si distingue un piccolo gruppo di patrioti, antifascisti fuori dai ranghi, una meteora che sconvolge gli assetti. Quei patrioti fanno capo a un ufficiale dell’esercito regio, Giuseppe Pacifico, e soprattutto a don Giuseppe Bravi, il parroco del paese. Quei pochi uomini in breve ottengono una serie impressionante di vittorie: conquistano il seminario, fra Clusone e Rovetta, e convincono i seicento russi là acquartierati a passare dalla loro parte, trattano la resa dei pochi tedeschi asserragliati nell’albergo Franceschetti, al passo della Presolana. Infine, mandano in tilt i meccanismi del Cln: intercettano i militi della «Tagliamento» in marcia verso Clusone con l’obiettivo di arrendersi. Invece di finire nelle mani della «Camozzi», i fascisti vengono fermati a Rovetta.
A Rovetta il 28 aprile si confrontano e si fronteggiano i due schieramenti: i partigiani della «Camozzi», assetati, come si direbbe oggi, di visibilità, e in subordine i comunisti della «13 Martiri» guidati dal Moicano, a sua volta in contatto con gli inglesi; i patrioti di don Bravi, irrobustiti dalla diserzione di massa dei russi e galvanizzati dai clamorosi successi ottenuti. In mezzo, i prigionieri fascisti, destinati ad essere sacrificati sull’altare dell’ideologia. Per Grazia Spada non ci sono retroscena torbidi o misteriosi, non c’è lo zampino dietrologico di chissà quale manina straniera. E quel bagno di sangue non può essere spiegato solo col corredo dei sentimenti accumulati in anni di sofferenze e lotte durissime. No, succede qualcosa di molto più oscuro e inquietante: i partigiani della brigata «Giustizia e libertà Gabriele Camozzi», al comando di Giuseppe Lanfranchi detto Bepi e Zaverio Fornoni alias Walter, ristabiliscono la catena di comando e lo fanno con quella prova di forza.
L’eccidio viene pianificato forse nella notte fra il 27 e il 28 aprile, in una riunione al caffè Commercio di Clusone. Il giorno dopo i partigiani passano all’azione: due camion scaricano decine di uomini armati, i disertori russi vengono disarmati, don Bravi viene messo a tacere dopo una lite furibonda. I quarantasette militi, che erano stati trattati con umanità e addirittura portati a mangiare in trattoria, sono pestati brutalmente. Poi vengono scortati al cimitero. Tre vengono graziati per la loro giovanissima età, un quarto fugge in modo avventuroso, gli altri quarantatré vengono fucilati. Sparano le armi automatiche, e spara una mitragliatrice tedesca. Muoiono ragazzi di 16, 18, 20 anni che ormai pensavano soltanto al ritorno a casa. Per ultimo, crudeltà nella crudeltà, viene abbattuto Giuseppe Mancini: i giellini hanno scoperto che è figlio di Edvige Mussolini, sorella del Duce.
E il Moicano perché non interviene? Grazia Spada cerca una risposta nella complessità del personaggio. Era sì un agente del Soe, ma era anche un partigiano e da comandante, il comandante Paolo, in Veneto aveva commesso uno sciagurato errore liberando due tedeschi che poi avevano dato preziose informazioni ai loro compagni e organizzato un durissimo rastrellamento. Inoltre, le direttive britanniche erano chiare: non impicciarsi degli affari degli italiani, almeno in quella fase di transizione. Don Bravi, in una deposizione del ’47, afferma: «Il Moicano mi venne incontro e mi disse: “Le torno a ripetere che io non c’entro in questo fatto, questa è la giustizia partigiana”. E al mio invito di salvare qualcuno mi disse di fare da me il possibile per salvarne più che potevo».
La sentenza del ’51 - che chiude i conti con un’amnistia generale - se la cava attribuendo genericamente la responsabilità principale della strage al Moicano, ribattezzato con uno svarione «il Toscano», «di imprecisata nazionalità, rappresentante dell’esercito alleato nelle formazioni partigiane delle montagne bergamasche».

Presto il Moicano sarà dimenticato, insieme agli altri protagonisti della mattanza. Lui, intanto, è stato liquidato dal Soe, dopo la guerra si è trasferito con la moglie a Milano e qui condurrà un’esistenza appartata fino alla morte nel 1999. Ora, caduto il velo, scopriamo che non era l’uomo nero.

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