nostro inviato a Frascati (Roma)
«Hanno inventato una polemica che non esiste, si sono immaginati un dissenso con Napolitano che è pura fantasia, hanno usato contro di me vecchi e logori stereotipi e manifestazioni scomposte di razzismo culturale». Ignazio La Russa, ministro della Difesa, ha appena terminato un seminario con gli studenti della Summer School di Magna Carta, animato da Gaetano Quagliariello. Ma l’argomento del giorno sono le polemiche che si sono sollevate dopo il suo discorso commemorativo dell’8 settembre. Il ministro della Difesa non è per nulla intimidito, anzi, un vero e proprio fiume in piena. Dice che non si rimangia nemmeno una parola e spiega perché.
Ministro, se le aspettava le polemiche?
«Sinceramente no. Perché considero i miei avversari molto più intelligenti di quello che a volte si dimostrano».
L’accusano di fare revisionismo storico attraverso la sua carica istituzionale...
(Il ministro sbotta) «Ma quale revisionismo! Questi non sanno neanche che cosa voglia dire. Tutti quelli che in questi anni hanno affrontato gli avvenimenti del ’43 si sono spinti molto più avanti di me».
Facciamo degli esempi.
«Ce ne sono tanti. Se vogliamo citare i due più importanti, la monumentale bibliografia di Renzo De Felice e i quattro libri di Pansa, compreso l’ultimo, I tre inverni della paura, che fotografa straordinariamente proprio quel momento di sbandamento tragico che nel nostro Paese fu aperto dall’8 settembre».
Allora torniamo alle frasi che le contestano.
«Mi ero preparato il discorso, una scaletta di appunti, perché di solito parlo a braccio, già da una settimana».
E aveva già messo a fuoco il passaggio incriminato?
«Ovviamente sì: nel mio discorso non ho fatto riferimento alla storia di tutta la Repubblica di Salò, nemmeno ai soldati della Rsi, ma a quelli del battaglione Nembo che combatterono ad Anzio».
Lei è partito elogiando quelli che combatterono contro i nazisti...
«Sì, e non potevo fare altrimenti, per due motivi: perché si opponevano a un esercito straniero, in quel momento ostile. E poi, perché con il loro sacrificio, avevano contribuito alla costruzione di quella Italia democratica e libera in cui viviamo».
Poi lei ha citato anche coloro che si erano schierati sul fronte opposto. E qui si è scatenato il putiferio.
«E ovviamente non si capisce perché, se si esclude la malafede. Ho detto, infatti, parlando, e ci tengo a ripeterlo, sempre di quei soldati della Nembo, che non potevo fare un torto alla mia coscienza non ricordando che anche loro, come tutti i caduti, erano meritevoli di rispetto perché nella loro testa, in modo soggettivo e non equiparabile a quello di coloro che fecero la scelta opposta, avevano in mente l’ideale della difesa della patria e dell’onore alla parola data».
Quindi lei non ha fatto nessuna equiparazione.
«Assolutamente no, ho distinto, come vede, e con parole molto chiare, perché mi è molto chiaro il ragionamento su quegli uomini e su quel passaggio storico».
Per tutto il giorno, e sul sito della Repubblica è rimbalzato il tam tam di una irritazione del Quirinale. Non posso che chiederglielo, è vero?
«Macché. Una panzana colossale. In primo luogo, non poteva esserci polemica con il presidente della Repubblica perché ho parlato dopo di lui».
Non nei discorsi ufficiali. Ma magari a quattr’occhi...
«Sono stato con Napolitano, con grande cordialità, per molto tempo dopo il discorso. Non mi ha detto nulla, non è vero che era seccato, non voglio ovviamente interpretarlo, ma non c’è stato il minimo accenno a qualsiasi irritazione».
Come si spiega allora il polverone che si è sollevato?
«Semplice, con una forma di razzismo culturale: siccome io sono di destra, ho una storia di destra, e certo non me ne vergogno, si presume che io non possa parlare».
Forse pensano che lei si dovrebbe astenere dal toccare certi temi...
«Con me se lo possono scordare, non mi faccio tarpare dai gendarmi della memoria e dai professori della storiografia ufficiale».
Pensa che la sua immagine istituzionale sia appannata?
«Primo non lo è. Secondo non me ne importa nulla, perché non ho ambizioni, non devo farmi rilasciare patenti, sono già orgoglioso del ruolo a cui sono arrivato».
Ieri l’ha attaccata anche Veltroni, se lo aspettava?
«No, non ha ecceduto come altri, ma certo con le sue parole ha fatto torto in primo luogo alla meritoria azione di pacificazione nazionale che ha svolto da sindaco di Roma».
Lei ha citato il discorso di Violante su Salò.
«Certo, anche qui: ha detto molto più di quello che ho detto io, e fra l’altro lui si riferiva a tutta la Repubblica di Salò. Io, invece, parlavo di quel periodo preciso, e di quei soldati».
Perché lo sottolinea?
«Perché stiamo parlando della fine del ’43, un momento di caos assoluto. Ha presente il film Tutti a casa con Alberto Sordi che telefona al comando gridando: “Aiuto, i tedeschi si sono alleati con gli americani e ci sparano contro”».
Nel senso che sembrava più probabile?
«Sì, per un soldato italiano, abbandonato e all’oscuro di tutto, sembrava impensabile che gli alleati di ieri ci sparassero addosso».
L’hanno criticata anche i dipietristi.
«Questa è bella, dovrebbero rivolgere le stesse critiche al loro leader che, come a Milano sanno tutti, da ragazzo votava Msi».
Però lei ha parlato proprio il giorno dopo la polemica di Alemanno sul fascismo male assoluto o no.
«Gianni ha spiegato oggi, con grande chiarezza, la sua posizione. E in questa forma, sono d’accordo con lui. Ma io parlavo di tutt’altro. Lo facevo nel giorno della nascita di mio padre, consapevole di quello che dicevo e della reazione che potevo suscitare, e certo che c’era solo un limite che non potevo forzare».
Quale?
«Che ero tenuto per mandato istituzionale a parlare di quei ragazzi, che se avessi potuto scegliere non l’avrei fatto, ma che avendolo dovuto fare, non potevo censurare la mia coscienza».
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