Il sì alla manovra frena le grandi manovre

Il voto alla Camera allontana le ipotesi di gabinetti tecnici o "governissimi". E anche Napolitano si adegua. In ribasso le quotazioni dei soliti outsider, da Montezemolo a Pisanu

Il sì alla manovra frena le grandi manovre

RomaLa firma subito, appena gliela portano dalla Camera. E subito Giorgio Napolitano rilancia il suo appello: «Sono grato al Parlamento per la straordinaria prova di coesione nazionale, ora però parta un confronto aperto e concludente sulle altre cose da fare per uscire dalla morsa». Dunque la manovra è legge, l’Italia si è coperta e tutti adesso aspettano la reazione dei mercati, lunedì mattina. Basterà questa correzione dei conti per rintuzzare l’attacco speculativo? Il Financial Times sostiene di no. «C’è bisogno di più di un pacchetto di austerità - scrive il quotidiano -, serve la rimozione di Silvio Berlusconi». Ma dal Quirinale fanno sapere che di «rimuovere» il Cav non se parla nemmeno: anche volendolo, il presidente della Repubblica non può spodestare un premier che è stato eletto dal popolo, che ha superato voti di fiducia e che mantiene la maggioranza parlamentare.
Sotto con Silvio quindi, non ci sono alternative. L’opposizione, costretta da Napolitano a volare basso, si è vista ridurre i suoi margini di manovra. Certo, visto dal Colle, il momento resta difficile: «corriamo ancora dei rischi», sia finanziari che di stabilità politica. Il governo può sempre esplodere per attacchi esterni da vario tipo o implodere per le fronde nel Pdl o il malessere leghista. Gli scenari alternativi, i governissimi, i gabinetti tecnici o di decantazioni, sono ipotesi tuttora sul tappeto anche se leggermente più lontane. I nomi che si fanno e si disfano sono sempre quelli: Mario Monti, Beppe Pisanu, persino Luca Cordero di Montezemolo. Dall’elenco sembra però sparito Giulio Tremonti, sospettato da tempo di intese segrete con il centrosinistra. Il ministro ha avuto poi una settimana di passione per le intercettazioni e si era sparsa la voce di sue imminenti dimissioni. Adesso però, dopo che pure Napolitano gli ha chiesto di restare al suo posto, appare più saldo: è lui ora a fare da garante nei confronti dell’Europa.
Ma il governissimo, sempre nell’ottica del Quirinale, non è un problema di oggi. Anzi, in una nota di accompagnamento alla promulgazione della manovra, il capo dello Stato ringrazia i partiti per «l’impegno comune» e li esorta a fare un altro sforzo: «Spetta ora agli opposti schieramenti confrontarsi nel modo più aperto e concludente per rompere la morsa alto credito-bassa crescita che stringe l’Italia». Tuttavia, li invita a non fare «confusione di ruoli». Governo e maggioranza «si sono assunti la responsabilità di proporre e sostenere i contenuti del decreto», l’opposizione di «prospettare soluzioni diverse», tutti insieme hanno contribuito «a rafforzare la credibilità e la fiducia nell’Italia delle istituzioni europee e dei mercati». E per fare questo «non si è verificata alcuna rinuncia alla proprie posizioni da parte di qualsiasi forza politica». Maggioranza e opposizione, ognuno al posto, distinti e distanti.
Il centrosinistra infatti ha già rotto la tregua. Bersani parla di «manovra classista» e Di Pietro dice che «è l’ultima volta che accogliamo l’appello di Napolitano». Anche il centrodestra però ha i suoi guai. Il Cav si sente sotto tiro incrociato: da una parte l’attacco degli speculatori, dall’altro le inchieste della magistratura e i problemi di un rimpasto sempre rinviato. C’è un ministro, Saverio Romano, accusato dalla procura di Palermo di rapporti con la mafia. Ce n’è un altro, Andrea Ronchi, che si è dimesso otto mesi fa e non è stato sostituito. Ce n’è un terzo, Angelino Alfano, che è diventato segretario del Pdl e che quindi dovrebbe lasciare la Giustizia. E ce n’è pure un quarto, Giulio Tremonti, che potrebbe ancora essere toccato dall’inchiesta su Milanese. Senza parlare dei continui tira e molla della Lega. Un assedio dal quale Silvio Berlusconi vuole uscire la settimana prossima, quando, superata si spera l’emergenza finanziaria, si presenterà al Quirinale per la sostituzione di Alfano e ribadire al capo dello Stato la sua intenzione di non mollare Palazzo Chigi.

Sarà anche il modo per scrollarsi in parte dalla tutela presidenziale, una gabbia che è stata utile al Cav per ammorbidire l’opposizione per mettere in salvo i conti della nazione, ma che ogni tanto diventa stretta e scomoda, soprattutto quando Napolitano vuole dire la sua sull’agenda politica e sulla squadra di governo. È successo l’ultima volta giovedì, quando ha definito «irresponsabile» il totonomine. Ma ora Berlusconi vuole riprendere il centro della scena.

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