Il sacrario impossibile della lunga guerra civile

La guerra civile, che neppure «guerra civile» ha potuto a lungo chiamarsi, è finita 62 anni fa. È finita 27 anni dopo la conclusione della prima guerra mondiale. Viviamo perciò in un’epoca ancora contemporanea, anche se ormai lontana, a entrambe quelle tragedie. Eppure, nessuno trova da ridire sul fatto che i vinti del 1915-18 possano oggi riposare accanto ai soldati vincitori in cimiteri d’Italia. Nessuno vieterebbe agli allora oppressori austriaci il diritto pietoso e non solo cristiano di portare un fiore sulla tomba dei loro nonni e bisnonni in un campo militare dove pur s’onorano anche e soprattutto caduti italiani, cioè quelli che ai nostri occhi combattevano «dalla parte giusta», seguendo un insegnamento di liberazione nazionale che veniva dal Risorgimento e dall’esempio dei suoi martiri per la patria.
Non si comprende, allora, perché ciò che con grande civiltà e spirito di riconciliazione avviene senza problemi da decenni nei riguardi di stranieri, e di stranieri che erano governati da un Kaiser, mica da un regime democratico, debba prendere subito una piega ideologica se si riferisce ad italiani. Perché l’idea del Comune di Milano di seppellire in un unico sacrario i giovani (italiani) che aderirono e morirono per la Repubblica sociale assieme a giovani (italiani) che hanno dato la vita per liberare la nazione dalla dittatura, non potrebbe mai avere le pretese che infatti non ha: quella di voler «giudicare» una vicenda che i cittadini hanno da tempo giudicato e archiviato, decretando l’irreversibilità della scelta per la libertà come valore fondante tra le persone e della democrazia come principio insuperabile della Repubblica. Rispettare la memoria, dunque, non vuol dire riviverla, o addirittura cercare di cambiarla. Come disse il capo dello Stato, Carlo Azeglio Ciampi, il 14 ottobre 2001 commemorando un eroe della Liberazione, «abbiamo sempre presente, nel nostro operare quotidiano, l’importanza del valore dell’unità dell’Italia. Questa unità che sentiamo essenziale per noi; quell’unità che in fondo oggi, a mezzo secolo di distanza dobbiamo pur dirlo, era il sentimento che animò molti dei giovani che allora fecero scelte diverse. Che le fecero credendo di servire ugualmente l’onore della propria Patria».
Un atto di semplice ma formale rappacificazione nazionale non può avere alcuna ricaduta politica sul presente né, tanto meno, far vacillare il verdetto della storia. Può solo indicare che la «guerra civile» è finita anche a parole, sessantadue anni dopo.
f.

guiglia@tiscali.it

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