SALMAN RUSHDIE «Occidente timido davanti all’Islam»

Il Kashmir era il paradiso. L’estate di Salman Rushdie cominciava a luglio, quando partiva per la terra di suo padre. Era un bambino annoiato di Bombay, che cercava le montagne oltre le grandi pianure. Era il luogo del sogno.
«Il Kashmir - racconta Rushdie - nasconde qualcosa di magico. Quando gli indiani della città arrivano lì, scoprono la neve. Scendono dall’aereo e guardano i cumuli ai bordi della pista. È neve sporca di asfalto e cherosene, ma loro si inginocchiano, la afferrano e la guardano come fosse oro. Il Kashmir è l’Islam che non ha tabù. L’erotismo delle donne è arte antica. È qui che Sherazade ha rubato le sue storie e le ha raccontate per mille e una notte al nobile Shahriyàr. Chi vive qui guarda all’India e all’Islam con lo stesso sguardo distante, un atteggiamento che si riduce a tre parole: lasciateci in pace».
Le storie di Shalimar il Clown (Mondadori, pagg. 400, euro 18,50) hanno il profumo del Kashmir, sanno di amore e di oblio, di tradimento e passione. È la storia di un clown che vuole volare e di una ballerina che lo sprofonda nell’abisso. È la storia di un clown che diventa terrorista per vendetta, per rabbia, perché l’amore che s’infrange non fa prigionieri. Sono le storie, di terrore e identità, di personaggi che attraversano il secolo e il mondo con in tasca sempre la stessa domanda. È la domanda che assilla ebrei e musulmani, ambasciatori a stelle e strisce, vergini pandit e irrequiete meticce che hanno paura di sognare.
L’orgoglio dell’identità, l’illusione dell’identità, la maledizione dell’identità, un demone che tormenta tutti, tranne i falsari.
Salman Rushdie il reietto, l’apostata, l’uomo colpito dalla fatwa, che fugge una condanna a morte compagna di vita, sta comodamente seduto su una poltrona dell’hotel Bulgari a Milano. Da tempo ha imparato a sorridere dell’Islam e dei suoi spettri. Forse gli scrittori come i falsari non hanno l’assillo dell’identità. Rushdie non ha pene d’amore. Non ha vendette. Ha vissuto molte vite, più di quanto sia lecito immaginare. Ha il cinismo giusto per non chiedersi più: chi sei?
Chi è Salman Rushdie?
«È un personaggio complesso. È originario del Kashmir, ma è cresciuto a Bombay. È un musulmano che ha saputo integrarsi in Gran Bretagna. È un cittadino di New York, un padre, un marito, uno scrittore, un tifoso del Tottenham, che in America ha scoperto il baseball, uno insomma confuso anche dal punto di vista sportivo. E sì, d’accordo, uno che ha anche imparato a convivere con la fatwa e sta bene con se stesso».
Tutti i suoi personaggi, invece, sono in crisi d’identità.
«È vero, loro più di me riflettono lo spirito del tempo. Tutti hanno bisogno di ritrovarsi. Shalimar ha il sogno del volo, che è una definizione ma anche una fuga. Noi stiamo vivendo in un’era in cui la ricerca dell’identità è diventata una questione centrale. Siamo precari, indefiniti, indefinibili, senza certezze e con orizzonti che sono troppo grandi per il nostro piccolo cuore. La paura del vuoto genera fanatismo».
La soluzione?
«La soluzione, appunto?».
Trovare identità forti.
«È un’illusione, un’utopia. Non è più possibile identificare qualcuno con un solo aspetto. Dobbiamo arrenderci alla bellezza, e alla libertà, dell’uomo politeista. Non nel senso di un uomo che crede in numerosi dei, ma di un uomo che convive con le sue molteplici identità. Non è più vittima di una definizione monocromatica di se stesso. Quest’ansia di appartenenza ha conseguenze politiche drammatiche. La monoidentità esclude la tolleranza».
Benedetto XVI è stato definito un Papa dell’identità. Magari questa è la chiave di lettura per trovare il dialogo con l’Islam?
«Non credo. Anche se non seguo con attenzione le parole del Papa. Diciamo che non è uno dei miei interessi quotidiani...».
Shalimar, il clown, diventa terrorista per un amore tradito.
«Shalimar è un terrorista finto. Non ha ideali. Non agisce per idologia. L’obiettivo della sua vita è prendersi la sua vendetta. Il suo obiettivo è l’uomo che ha rubato l’amore della sua donna. Sceglie di entrare in un gruppo di fanatici solo perché il loro obiettivo coincide con il suo. Shalimar è un uomo d’onore colpito nel suo orgoglio. Non accetta l’immagine di maschio sconfitto. Quando incontra la madre alla vigilia dell’attentato si lamenta e dice: “sei fortunata a non essere uomo. Non ti sentirai mai così umiliata”. E lei risponde: “Sei fortunato a non essere donna, così non devi vedere tuo figlio morire”. Ma quello di Shalimar non è il ritratto di un terrorista. Il vero figlio del terrore è il fratello Anis, ispirato dal nazionalismo, dalla fede religiosa, dall’ideologia. Shalimar è un figlio del passato, una vittima della tradizione. Anis è figlio del suo tempo, del nostro tempo».
Qualche tempo fa lei ha firmato il manifesto dei dodici.
«Sì, dopo la pubblicazione delle vignette».
C’è scritto: dopo aver vinto il fascismo, il nazismo, lo stalinismo, il mondo ha di fronte una nuova minaccia globale di tipo totalitario: l'islamismo.
«Le suona strano?»
L’islamismo è totalitario?
«Quello politico sì. È un’ideologia totalitaria che usa in modo mediatico la figura di un super-leader carismatico. L’opinione pubblica occidentale fatica a rendersi conto di questo. La vedo titubante, sempre preoccupata di offendere il sentimento religioso di chi usa Dio come scusa per il terrore. Siamo arrivati a mettere sullo stesso piano le vignette satiriche e le intimidazioni, le minacce. È assurdo dire: “Vabbè, ci minacciano, ma li abbiamo provocati”. Si confonde il cattivo gusto con la violenza».
Ma lei le vignette le avrebbe pubblicate?
«Ne avrei pubblicata solo una, perché è l’unica davvero divertente».
Quale?
«Il Profeta parla a un kamikaze pronto a morire: “Fermati, ho finito le vergini”. Mi fa ridere e come direttore l’avrei pubblicata. Le altre erano un po’ tristi come umorismo».
La Turchia voleva processare Orhan Pamuk per aver parlato del genocidio armeno. È questa la Turchia che vuole entrare in Europa?
«Speriamo di no.

Il caso è archiviato e Pamuk non finirà in carcere. Ma resta assurdo che nel codice penale turco ci sia una norma che vieti di dire la verità».
Salman Rushdie ha mai cercato il paradiso?
«Qualche volta».
E l’ha mai trovato?
«Tanti anni fa. Nel Kashmir».

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