«Al Salone del tessile vince il made in Italy Balzo dei ricavi (+12%)»

Milano Unica - il Salone italiano del tessile - ha chiuso i battenti confermando due risultati importanti: la decisa rimonta del settore, in termini di fatturato (+11,8%) e di export (+11,6%), e il successo dell’idea che ha unito, ormai definitivamente, le tradizionali fiere specializzate (Ideabiella, Ideacomo, Shirt Avenue e Moda In) senza annullare le differenze ma rafforzandone l’identità. Una sfida fortemente voluta dal presidente di Milano Unica, Pier Luigi Loro Piana.
I numeri le hanno dato ragione, direi.
«Siamo contenti soprattutto dell’importante incremento dei visitatori stranieri, che nel complesso hanno segnato un +12%, ma ci sono aumenti anche molto superiori: in particolare la presenza cinese è aumentata del 298% e quella brasiliana del 60 per cento. Per quanto riguarda l’Italia il segnale più significativo arriva dagli espositori, con i grandi ritorni di aziende assenti nelle passate edizioni. Tutto questo dimostra l’apprezzamento per il sistema Milano Unica, che ha dato ancora più forza alle aggregazioni precedenti. Anche a livello di idee».
Può fare qualche esempio?
«Milano è una vetrina unica nel suo genere, e permette di realizzare iniziative che in altre città sarebbero impensabili, come il concerto in Duomo di Andrea Bocelli che ha avuto un successo straordinario, anche e soprattutto presso i clienti e la stampa internazionali».
Il Salone del tessile come quello del mobile, quindi?
«Perché no? Abbiamo estrema ammirazione per la vitalità e la creatività che mettono in campo, anche se naturalmente si tratta di un pubblico diverso: noi siamo una fiera per addetti ai lavori. Ma il carattere è lo stesso: per esempio, grazie al design made in Italy, siamo riusciti a realizzare per gli stand un’ambientazione omogenea e raffinata, perché anche le aziende più piccole potessero avere una cornice adeguata, il tutto riducendo i costi».
Ma è possibile per una piccola azienda conquistare mercati nell’era della globalizzazione?
«L’unica strada è la creatività: ed è lì che bisogna reinvestire, adesso che siamo usciti dai 12 mesi più difficili. Il nostro ruolo è questo: sennò i clienti cinesi, per dire, starebbero al loro Paese, dove spendono certamente meno. Se vengono, loro e gli altri, e in numero sempre maggiore, è perché sanno che nessuno ha una proposta così ampia e varia come l’Italia, con tutte le sue realtà aziendali. Non è vero che bisogna consorziarsi per forza».
Però il distretto dell’occhialeria, per citare un settore chiave del made in Italy, lo ha fatto e con successo.
«Certo, poche grandi aziende gestiscono tanti marchi. Ma appunto, dietro i colossi ci sono tante creatività diverse, quelle degli stilisti. Sennò, non ci sarebbero le collezioni di successo».
A proposito di creatività: a che punto siamo con la legge sul made in Italy?
«La legge nazionale, nonostante i grandi sforzi di compromesso, alla fine è stata sospesa: le iniziative europee stanno facendo il percorso giusto, però alla velocità di una lumaca. La tracciabilità del prodotto è ancora lontana: non si deve poter comprare un tessuto in Turchia, fare un vestito in Italia e scrivere sull’etichetta che è made in Italy».
E chi lo fa oppone il problema dei costi, giusto?
«Le faccio un esempio: ogni tessitore controlla 4 telai, quindi ci vuole spazio, poi la climatizzazione e così via. Alla fine un posto di lavoro costa un milione di euro.

Per ammortizzarlo, dobbiamo lavorare su 4 turni, il che significa un’enorme quantità di energia: che però, per noi, costa carissima. Ecco perché chiediamo il riconoscimento di industria energivora, con le agevolazioni previste dalla legge».

Commenti
Pubblica un commento
Non sono consentiti commenti che contengano termini violenti, discriminatori o che contravvengano alle elementari regole di netiquette. Qui le norme di comportamento per esteso.
Accedi
ilGiornale.it Logo Ricarica