Salvate il Parlamento

Già serpeggiava, il giorno della fiducia alla Camera, un’aria di disagio. Il disagio del Parlamento che teme – ed è il suo mestiere temerlo – di essere esautorato da un eccesso di accordo e armonia soporifera fra l’esecutivo, il governo, e l’opposizione che non per caso ha dato vita a un governo-ombra, cioè a una sorta di antimateria dell’esecutivo. Sicché si percepiva l’impressione non tanto di un «inciucio», che è una sciocchezza, ma di una messa in mora del Parlamento come soggetto di una democrazia parlamentare, cioè di una democrazia in cui il Parlamento è il centro della vita politica del Paese.
Il rischio è che il centro della vita politica del Paese si incisti nelle tre o quattro trasmissioni televisive che costituiscono le nuove Camere (Porta a Porta, ma non soltanto), che i due esecutivi – quello vero e quello «antimateria» – si accordino fra loro in una serie di patti bilaterali, e che al Parlamento sia riservato un ruolo notarile e subalterno, come accadeva al Senato romano man mano che la figura del princeps augusteo assumeva tutti i poteri. Voglio anche dire che io sono personalmente un presidenzialista all’americana, penso che il Presidenzialismo, o il premierato forte, siano la soluzione dei problemi di governabilità, ma proprio per questo sono convinto che la questione dei checks and balances, pesi e contrappesi, sia tanto più importante quanto più l’esecutivo è forte e che dunque a premierato forte debba corrispondere un Parlamento egualmente forte. Il che oggi è di fatto impossibile. Il Parlamento appare debole e questa debolezza virtuale la si è potuta già toccare fisicamente con mano, nel cambio di clima psicologico e persino fisico, nel linguaggio del corpo e delle voci all’interno delle aule: un Parlamento che rischia di perdere la propria identità vedendo sgonfiarsi le velature per mancanza di vento: lo spettro della grande bonaccia, non meno preoccupante della grande tempesta.
L’onorevole Casini ha fatto qualche giorno fa un discorso appassionato e sconclusionato, senza centro e senza bussola, ma con l’onestà degli sconfitti. E ha detto una cosa che ci ha colpito: in Italia opposizione e maggioranza non affondano le loro radici storiche in una storia di valori ed eventi condivisi: le stesse guerre, le stesse vittorie e la stesse sconfitte. La storia politica della Repubblica è stata e resta una storia non condivisa, in cui ciascuna parte trae la propria legittimità da valori ed eventi contrapposti a quelli dell’altra parte: questo determina la spaccatura sulla storia italiana, sulla guerra fredda (grazie alla Commissione Mitrokhin e alle sue incredibili vicende ne so qualcosa), sulla religione, la cultura, l’etica. Il merito della campagna elettorale di Berlusconi, e quello simmetrico di Veltroni di aver capito l’importanza dell’occasione, sta nella ferma volontà di superare la grande spaccatura iniziale e arrivare alla condivisione.
Il che è bene, è nobile, è politicamente opportuno, è onesto.
Ma a una condizione: cioè che se si deve voltar pagina (molte pagine) della mancata condivisione di valori e memorie, allora è bene che prima quella o quelle pagine siano accuratamente lette e altrettanto accuratamente scritte. Questo è un obbiettivo che non tocca all’esecutivo, né al governo ombra, darsi, ma che a parer nostro toccherebbe al Parlamento con l’uso di strumenti che si possono definire in corso d’opera. Dio e i verbali stenografici mi sono testimoni del fatto che tentai personalmente, proprio con la Commissione Mitrokhin, di offrire all’opposizione di sinistra la grande opportunità di riscrivere onestamente e senza lacune la storia non ancora condivisa, ma quella sinistra che era rappresentata nella commissione non ebbe né la forza morale né politica di accogliere l’opportunità e preferì gettarsi a testa bassa nelle più torbide fabbricazioni create da personaggi del sottobosco giornalistico che in questi giorni si vibrano reciproche martellate in fronte.
Oggi abbiamo di nuovo questa opportunità. Abbiamo un ministro della Cultura come Sandro Bondi che crede fermamente nella reciproca legittimazione non come compromesso al ribasso ma come una conquista importante e faticosa. Abbiamo inoltre il clima di cui parlavo all’inizio e di cui molto si è detto e scritto, che è un clima fin troppo cortese e disossato. Quando ho visto che ero l’unico ad interrompere Di Pietro durante la sua ovvia e sgrammaticata filippica in un idioma simile all’italiano, ciò che mi ha colpito non era l’intemerata dell’ex magistrato il quale usava legittimamente la grande prateria dell’opposizione radicale che gli ha regalato Veltroni come un latifondo, ma il fatto che nel contrasto parlamentare «alla voce» (che in fondo somiglia al tennis: tu batti e io ribatto) fossi quasi solo e che dai banchi della maggioranza si desse per scontato che in questo luogo di soave incontro detto Parlamento, fosse malvisto lo stesso costume parlamentare. Cito l’episodio perché la calma piatta delle Antille, come Italo Calvino chiamò un altro momento di apparente bonaccia, è percepita come una condizione della vita del Parlamento appena eletto. Il Parlamento non deve davvero creare problemi che non esistono, deve fare il suo mestiere nella discussione delle leggi, essere onorevolmente diviso fra opposizione e maggioranza, e tuttavia a nostro parere deve darsi una stropicciata agli occhi e capire che una grande occasione storica sta passando sotto gli occhi dei rappresentanti del popolo.
Quell’occasione storica è la possibilità davvero unica di cinque anni di lavoro costante, senza spezzature e conflitti di bandiera, in cui finalmente fare qualcosa di buono e di utile per il Paese e cioè lavorare attraverso le commissioni, le leggi, l’uso della cultura in senso politico e non soltanto turistico, la scuola, l’università, l’editoria, la televisione. Per una ricostruzione e condivisione onesta del passato e del presente. Nel 2011 questo nostro Paese celebrerà il 150° anniversario della sua unità, dopo una formidabile e salutare crisi di identità che ancora accende gli animi e alimenta discussioni.

Per uscire dalla bonaccia e consegnare alla fine della legislatura un Paese risanato non soltanto nelle riforme strutturali, ma anche nella struttura del comune sentire, il Parlamento può darsi obiettivi molto ambiziosi, molto peculiari e indipendenti e diventare il soggetto di una pacificazione nazionale e legittimazione reciproca che non consistano nell’amnesia, ma nella rinascita dell’orgoglio comune e dell’identità comune. Un lavoro più lungo dei cinque anni che abbiamo di fronte, ma che se iniziato subito può dare frutti concreti immediati.
Paolo Guzzanti

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