Sampierdarena e i «panin dô Menegu»

Sampierdarena e i «panin dô Menegu»

Nonostante sia trascorso molto tempo (Domenico Asparagi morì nel novembre del 1950), la figura di quest’uomo - un vecchio fornaio di via Chiusone, una strada sita a Sampierdarena - mi è tuttora viva nella memoria.
Di statura piccola, tarchiato e un po’ curvo di spalle. Con un naso colore violaceo e non per il vino, perché non ne beveva, ma per le fiammate di calore che prendeva quando apriva lo sportello del forno per controllare la cottura del pane, appariva sempre - a noi ragazzi - con una espressione del volto - buffonesca. Forse era quel suo aspetto così rimarcato, dovuto al colorito del naso - contrastando vivacemente con il resto del suo corpo, di carnagione chiara e con gli indumenti indossati bianchi e sempre infarinati - a conferirgli una immagine simile.
A noi era simpatico. E non solo perché ci regalava gli avanzi del castagnaccio (pane fatto con la farina di castagne) che rimaneva appiccicato nelle teglie dove veniva cotto, ma perché, ogni tanto, quando aveva, nel tardo pomeriggio, terminato di preparare il forno scrupolosamente, con delle fascinette di arbusti che avrebbero dovuto ardere con facilità, garantendo presto calore per la cottura del primo mattino (è lì che venivano sfornati i cosiddetti «i panin dô Menegu»), ci raccontava delle storielle, che dopo sarebbero risultati fatti realmente accaduti della sua vita. E vissuti con profonda onestà di animo.
Tuttavia, prima di accingermi ad entrare nel merito di qualche episodio significativo, che ha contraddistinto in maniera esemplare - a mio avviso - la sua esistenza, è opportuno chiarire l’origine del soprannome «I panin dô Menegu». Ovviamente «Menegu» è la traduzione in dialetto genovese di Domenico. Come «panin» da panino.
Tutto ha preso spunto dalla sfornata di pane che il nostro fornaio riusciva a preparare innanzi che suonassero le cinque. Era una qualità di panini dalla forma ovale. Fatti nel modo, appositamente, da facilitare chi avrebbe potuto, una volta che il panino fosse stato tagliato a metà per lungo, aggiungere qualche companatico.
Dato che Asparagi sapeva quali potevano essere le disponibilità economiche di chi acquistava tale panino a quell’ora (in prevalenza erano operai che lo avrebbero mangiato asciutto, anche per questo che qualcuno ne comprava più di uno), non si risparmiava di accrescere, nell’impasto della farina, dosi di strutto fuori regola per condirlo meglio. Abbondava. Asparagi curava quel pane quasi con devozione. Non voleva che nessuno interferisse in ciò che faceva.
E il risultato si otteneva. I panini diventavano gustosi e nutrienti. Avevano la crosta anche dorata. E così fu quasi impossibile che non si spargesse la voce. Sarebbero venuti ad acquistarli addirittura da altri rioni. Da lì quel soprannome: «I panin dô Menegu». Io l’ho assaggiati. Li comprava mio padre. Erano squisiti.
Mi venne riportato da qualcuno che non tutti potevano pagare quotidianamente, purtroppo, quei panini. Menegu appuntava quel dovuto in foglietti che custodiva in una scatoletta. Poi, quando di sarebbero presentati per saldare, Menegu si rivolgeva a costoro dicendo - quasi sempre con timidezza - che aveva smarrito il foglio del conto. E che il debito, pertanto, era stato saldato. E che di ciò - si raccomandava - non facessero parola con nessuno.
Atti suggeriti da fede cristiana? Oppure, altri erano i rapporti tra la gente? In quei colloqui, con molta disinvoltura, ci diceva che lui padre e madre non li aveva conosciuti. Era nato «trovatello». E sino all’età di dodici anni aveva vissuto in un Istituto gestito da un Ordine di suore molto povere. (Con una breve indagine sono riuscito ad appurare che appartenevano alla Congregazione di S. Anna. E che avevano sede nel Promontorio di Belvedere sempre a Sampierdarena).
In quella comunità visse di elemosine e di beneficenze che venivano fatte pure ai maschietti, quando a volte - coadiuvando le accompagnatrici femmine - toccava loro accompagnare i morti, recitando dietro al carro funebre, le litanie, sino al Cimitero della Castagna.
Il nome Domenico gli era stato messo - così dissero - perché venne al mondo (o trovato) di Domenica. (Pure con impegno non sono riuscito ad avere un riscontro preciso della sua data di nascita). Mentre per il cognome Asparagi, fuori uso negli ambienti religiosi, gli venne appioppato - si presume - per la caparbietà del funzionario municipale. Siamo pressapoco negli anni fine ’800. Il Comune di Sampierdarena, che fungeva con autonomia da Genova, era amministrato da partiti politici della tendenza socialista o anarco-sindacalista, i cui rapporti con la Chiesa non erano dei migliori. Anzi, erano ostili. Fu anche la motivazione per cui la Superiora dell’Istituto S. Anna, per opportunità, non si oppose a quella scelta. Avrebbe potuto finire peggio.
Non è da escludere che quell’impiegato del Comune di Sampierdarena fosse stato influenzato per quel cognome - forse - perché nelle zone circostanti si estendevano ancora - resistendo all’espansione industriale - campi e campicelli di ortaggi rigogliosi, tra cui gli asparagi prelibatissimi. Oggi, di quei luoghi scomparsi, riescono a rievocare la testimonianza - e di come un tempo si stava - soltanto i nomi di due quartieri che, non a caso, sono denominati Campi e Campasso.
Quando, a dodici anni compiuti una presunta zia di Domenico Asparagi volle prenderlo con sé, le religiose fecero delle resistenze. Contestarono in ogni maniera. Tra l’altro, il sacerdote che veniva a celebrare Messa nell’Ospizio, avendo appreso che il ragazzetto era bravo nello studio ed eccelleva altrettanto nella musica (strimpellava con disinvoltura alcuni strumenti a corda custoditi nel Collegio), avrebbe predisposto volentieri un suo trasferimento nel Seminario Minore della Diocesi per farne, un giorno, un buon prete.
Anche per questa volta le suore - come per il cognome - si arresero.
In aggiunta alla ostinazione di questa zia, «in verità» - egli affermava - «mai conosciuta prima di allora», ci fu anche la sua voglia di uscire da quell’ambiente di miseria. E quel desiderio lo espresse, quando glielo chiesero, senza esitazione.
Allora, come Asparagi divenne fornaio?
Questo mestiere - ci raccontava tutto sorridente - lo aveva scelto, non perché nel vicolo dove andò ad abitare vi fosse un forno, di cui la zia era, in parte, proprietaria, ma perché lui aveva pensato che a quel punto di fame non avrebbe più sofferto.
Quei frammenti della sua esistenza ci affascinavano in modo esemplare. Le cose che diceva, pur essendo molto semplici, ci riempivano ugualmente di commozione e di stupore.
D’estate lo ascoltavamo seduti nel gradino fuori dalla porta della bottega e d’inverno ci faceva entrare nel negozio. E, così, all’interno di quel luogo, per noi un po’ fatato, accovacciati sopra cestoni ricolmi di crusca e di soffici trucioli di legno - che a lui servivano per alimentare il fuoco del forno - lo seguivamo, nei suoi discorsetti, compiti. In silenzio.
Menegu ci affascinava. La nostra vivacità incontenibile - tipica dei ragazzi del dopoguerra - si quietava. Quasi per miracolo. Senza saperlo, forse, quel nostro spirito ribelle e anche maldestro, in quei momenti si interiorizzava. Per lui sentivamo, alla nostra maniera, affettuosità. Rispetto.
Mai capitò che qualcuno di noi si fosse permesso di compiere, nei suoi confronti, un atto inconsueto. Manifestare un comportamento screanzato. Magari, lasciarsi andare, dato che le tentazioni in quel posto non mancavano. Specie sopra alle scansie vi erano esposte varietà di torte dolci, panettoni farciti di frutta candita, cabaret di biscotti fragranti ed altro.
Fu in una di queste circostanze che riuscii a scorgere, appeso ad una parete, e lo vidi in modo fortuito, un quadretto. Incorniciava una fotografia non più chiara. Il vetro era opaco. Ne ho mantenuto la memoria. Ritraeva Menegu assieme ad un gruppo di altre persone. Le quali erano tutte in camicia nera. L’unico a non averla era lui. Per questo fu facile identificarlo. Indossava una giacca chiara e aveva la cravatta. La foto era datata 1935. E riportava scritto: «Associazione Fornai Sampierdarenesi».
Troppo tardi mi sono sottoposto a questa ricerca. E me ne rammarico. Il personaggio non essendo di rilievo, nulla vi è di scritto. La sua fu una esistenza umile. Soltanto quella forma di pane (I panin dô Menegu) ne ha mantenuto desto il ricordo sin quando è sopravvissuta quella generazione di uomini che lo comprava... Oggi, si stenta a riconoscere, addirittura, il luogo in cui era collocata la bottega. Si fa fatica a rintracciare modi e usi di un ambiente urbano in fase di estinzione. Alle nuove generazioni, ciò che si afferma, sembra inventato. Frutto di fantasia. A loro appaiono vissuti irreali. Non di appartenenza. E questo è il peggiore guaio. Si perde la memoria storica.
Comunque Menegu, in nessun modo, si occupò di politica.
Su questo aspetto della sua esistenza, le testimonianze rare e i ricordi vaghi - che sono riuscito ad avvicinare ed ascoltare - hanno concordato per la sua estraneità alla politica, sia nel periodo del Fascismo, sia dopo, con l’avvenuta Liberazione del 1945.
Invece, i suoi contatti con la Chiesa li mantenne - anche con una certa frequenza - con l’Oratorio di S. Martino, situato nella Pieve della Palmetta, a pochi passi dal suo negozio. Questa Chiesetta, che dipendeva dalla Maggiore della N.S. della Cella, verrà poi, distrutta da un bombardamento aereo nel 1942...
Per fortuna, dalla ricerca sono emersi due fatti di cui, a suo tempo, avevo già sentito parlare a casa mia e che sottolineano i tratti della sua moralità. Il primo (che è la rievocazione di un misfatto) successe nella primavera del 1944, agli albori di un giorno attorno al periodo della Pasqua.
Menegu, avendo sentito sparare diversi colpi di arma da fuoco molto ravvicinati, non esitò ad aprire l’uscio della bottega. Un uomo giaceva a terra. Sanguinava in più parti del corpo e tentava, per istinto, di alzarsi.
Non esitò un istante a precipitarsi in suo soccorso, non curante che, poco distante, vi era ancora un automezzo con a bordo una squadra di fascisti. Menegu, chinandosi sull’uomo che rantolava e sollevandogli la testa con dolcezza, ebbe modo di riconoscerlo. Era uno dei suoi avventori del primo mattino. Ma l’uomo ormai aveva smesso di gemere.
A quel punto Menegu si tolse il proprio grembiule e glielo avvolse con tutta la dignità che nel momento avrebbe potuto esprimere.
I fascisti non si mossero. Lasciarono fare. Anzi, appena dopo, rimisero in moto il loro veicolo e se ne andarono.
Senonché, qualcuno assistendo, da dietro a delle persiane, all’avvenimento drammatico, non potè, dopo, che riferire di avere avuto la suggestione di intravvedere - e in quella descrizione è giunta sino a noi - nelle sembianze di Menegu, un angelo. Il quale, calato dall’alto, aveva steso con dolcezza il suo manto bianco su chi era stato ucciso ingiustamente.
L’altro riferimento in cui il nostro fornaio non si risparmiò, anche qui, di intervenire, fu quando una ragazza del quartiere riuscì, per tempo, a rifugiarsi nel suo forno.
Scappava per non subire un oltraggio. E chissà cosa altro.
Eravamo nei giorni, appena dopo il 25 aprile 1945. Vi era euforia. E anche, per alcuni, voglia di vendetta. La ragazza avrebbe dovuto essere rapata e, inoltre, sopra la nuca ci sarebbe stata passata, per sfregio maggiore, la pittura. Aveva commesso un reato. Si era innamorata di un soldato tedesco. Un nemico. Per questo dovevano punirla. Era accusata di collaborazionismo.
Gli capitò nel forno piangendo. Tremava dalla paura.
Menegu ritenne di proteggerla. E la ospitò nell’alloggio sopra il vano del forno. E lui dovette, così, adattarsi a riposare in una branda. Quelli del Cln (Comitato Liberazione Nazionale) lo vennero a sapere. Ma si trattava di Menegu. Con buon senso imposero ai più scalmanati di dimenticare. E nel modo avvenne.
Anche se dopo, ad impensierire il nostro fornaio, non furono quegli uomini, bensì, la sua mandola. Ora, avendola trasferita nel piano di sotto del negozio, pensava che lo strumento al contatto con il calore, che il forno emanava con più intensità, potesse causare a quel legno pregiato qualche screpolatura.
A Menegu quello strumento premeva. Gli era stato donato tempo prima dall’Istituto di S. Anna. Lo avrebbero voluto ringraziare dei sacchi di farina e del pane che a loro aveva sempre elargito.
Negli ultimi tempi - ci andava dicendo - quando si addormentava non faceva altro di sognare Gesù Cristo. E nel sogno, pur non avendo mai bevuto vino, capitava che si ubriacasse con Gesù. E aumentando la nostra meraviglia, aggiungeva che lui e Gesù si mettevano, ogni tanto, anche a cantare con vigore pezzi di opere liriche accompagnandosi con la mandola, suonata da lui e con il mandolino suonato, invece, da Gesù.
Però, ci fu anche una volta - ci confessò quasi con reticenza - che dovette a malincuore rimproverare Gesù e lo diceva con tono serio. Gesù pizzicava le corde del mandolino fuori tempo. Non si impegnava, come avrebbe dovuto, nell’accompagnamento musicale. Stonava. Non aveva accordato con scrupolo il suo strumento. Poi, finalmente, tutto si rimediò. Risultò una armonia sublime. Mai riuscita prima.
Fu la gioia di Menegu. Alla fine della suonata, per festeggiare, si misero a rincorrersi tra i vicoli, mentre nel quartiere la gente dormiva, schiamazzando e fischiettando. Non tardarono di rendersi conto cosa stavano combinando. Ebbero vergogna. E rifugiatosi cheti cheti in bottega, si misero in ascolto silenziosamente, per il timore che qualcuno li rimproverasse.
Oppure, quando non erano soddisfatti di quel loro vagabondare notturno, sceglievano di cimentarsi in prove di forza fisica. Come quella che consisteva nel resistere più a lungo e su una sola gamba, con un sacco di farina sopra le spalle. Domenico Asparagi andava, di questa gara, particolarmente orgoglioso. La vinceva. Gesù, avendo le gambe secche, non riusciva a sopportare a lungo quel peso. Crollava. In un’altra circostanza ci riferì che, in uno dei quei suoi sogni, lui e Gesù furono costretti, perché provocati e ingiuriati, a menare le mani contro un gruppo di malviventi. Ma, pur avendo ragione, buscarono entrambi.
Queste sue ultime faccende ci venivano esternate con tanta naturalezza, che anche noi ragazzi pensavamo di meritare - quando alla sera ci coricavamo nel letto - di potere sognare di giocare con Gesù. Io non ricordo di esserci mai riuscito.
Poi, un giorno lo vedemmo seduto in uno sgabello nell’atrio della bottega. Era composto e vestito con ordine dei suoi indumenti da fornaio. Bianchi i pantaloni, bianca la camicia e altrettanto bianco il grembiule di tela.
Si muoveva con leggerezza.
Eravamo agli sgoccioli della sua esistenza.
Sembrava che volesse comunicarci ancora qualcosa di indefinibile. La sua voce si era fatta, ormai, fievole. Afona. Un filo di voce da assomigliare ad un suono lieve, continuo. Come non appartenesse più al nostro mondo.
Eppure riuscì, in un momento di lucidità, a bisbigliare che avrebbe avuto il desiderio di fare ritorno a casa. Senza rendersi conto che si trovava a casa sua. E che da quel luogo non si era mai mosso. C’era da giurare che nel centro di Genova non ci fosse mai stato.
Chissà a quale case avrebbe voluto riferirsi.
Quando Domenico Asparagi morì, lo trovarono sdraiato, vicino al forno. Era sopra a delle fascinette di arbusti di legna, quelle che avrebbero dovuto fare cuocere, alla giusta cottura, i suoi «panin dô Menegu».
Chi lo scorse, in quel modo, disse che non sembrava neppure morto. Era in una posizione come stesse appisolato. Tranquillo.

E nel viso aveva delineata una espressione talmente sorridente - non era da escludere - sapendo dei suoi sogni, che Gesù gli stesse raccontando, lungo la strada che assieme avrebbero dovuto percorrere, una storiella divertente.

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