Sanguineti: scommessa persa. Ghezzi: film stupefacente

Giro di opinioni tra i fan dell’autore de «La sottile linea rossa». Marco Giusti: «È un Kubrick mal riuscito, ma la storia d’amore commuove»

Michele Anselmi

«Sarà un bagno di sangue», profetizza Tatti Sanguineti. «No, è un film stupefacente, un gioco Titanico» (da Titanic, ndr), si esalta Enrico Ghezzi. «Mi pare un Kubrick riuscito male, però la storia d'amore è commovente», apprezza Marco Giusti. Tre cinefili doc, noti al pubblico radiofonico e televisivo, di fronte a The new world: quasi un ufo cinematografico, molto sfotticchiato o molto amato, di sicuro uno dei cine-eventi del 2006. Cresciuti masticando lo stesso cinema, i tre sul nuovo Malick la pensano in modo diverso.
Taglia corto Sanguineti. «Sono film che è meglio lasciar fare alla Disney o ai portoghesi. Mi pare una scommessa persa in partenza. C'è una mancanza di amorosi sensi cinematografici, una ricerca sin troppo ossessiva della ricostruzione, del manufatto, dei costumi. Solo una scena mi ha emozionato: quando gli indiani estirpano, esultando, il mais piantato dagli inglesi. È come se estirpassero la cultura dei nemici. Lì sento una verità strappata». Per il resto... «Bah, Morandini ha parlato del “panteismo di Malick”. Francamente non me ne frega niente. Basta danzare tra l'erbetta. Questa Pocahontas sembra la Vispa Teresa. Alla fine, il film prenderà una bastonata: è fatto per non piacere a nessuno, non è abbastanza niente. Aguirre o Fitzcarraldo di Herzog possedevano un delirio e una visionarietà ben più alti. Ma perché Malick non ha dato uno sguardo ai film di Paulo Rocha sulla colonizzazione?». Forse non li conosce.
Non la pensa così Ghezzi. Alla sua maniera, spiega: «Come in Titanic un passaggio storico epocale viene non ridotto a storia di una coppia, ma ingigantito in essa. La sottile linea rossa tra visibile e invisibile nell'onnipresente monologo interiore dei personaggi genialmente combatte col nostro, diventando monologo esteriore, diffuso e espanso negli spazi filmati». L'inventore di Blob ammira «l'articolazione anarchica al di là del tempo, che infatti non esiste e non si racconta ma presiede a sua volta all'(in)azione in forma ancora spaziale, acronologica e mossa in tutte le direzioni ben oltre l'avanti e indietro temporale lineare. Lo spazio del sogno e dell'utopia è il primo a essere eroso e devastato. Un triangolo amoroso, anacronismo Nouvelle Vague, emerge nel nuovo mondo già desolato e capitalizzato e ritualizzato dal potere: quasi una forma indistruttibile della distruzione e consunzione stessa, generata nel mare di Solaris, dalla luce degli occhi di Pocahontas». Accidenti.
Infine Giusti, l'uomo dello «Stracult». «Guardi, l'ho visto con mia moglie (la giornalista Alessandra Mammì, ndr) che me lo massacrava per tutto il tempo, sbuffando e protestando. Ma a me questa Pocahontas piace molto: la trovo bellissima, sexy. Ci credi alla storia d'amore con John Smith. Poi è vero. The new world sembra un film sperimentale, un po' hippy, fine anni Sessanta. Ricorda un film brasiliano di Nelson Pereira dos Santos, Como era gostoso o meu francês, su un francese che s'immerge in una tribù india e alla fine viene mangiato». Ma questo è un kolossal hollywoodiano, ancorché d'autore, obiettiamo. «Gliela dico tutta: Malick è un vecchio rincoglionito, già sopravvalutato con I giorni del cielo. Nel suo film sento la cultura alternativa di quand'ero giovane: il montaggio assurdo, le riprese senza luce, gli attori che vagano, non capisci bene la storia.

Mi pare un film sulle nostre passioni cinematografiche di allora, un po' come The dreamers di Bertolucci. Malick fa un cinema sperimentale coi soldi di Hollywood». E il pubblico? «Si romperà da morire. Sembra un film che dura cinque ore. Ma io ne avrei vista anche una sesta». Contento lui.

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