Politica

SANREMO Eutanasia del Festival

Se il Festival di Sanremo è appassito come le ortensie in autunno c’è poco da stupirsi. E, forse, c’è anche poco da polemizzare: per tenere in vita un cadavere si spendono cifre esorbitanti, si schierano autori come fossero squadre di calcio, si chiamano premi Oscar per disegnare le scenografie. È come continuare ad innaffiare dei fiori appassiti: si fa prima a piantarne di nuovi. Ma per farlo, bisogna prendere atto dell’avvenuto decesso: questo Festival di Sanremo è defunto da un pezzo. Vegeta per accanimento terapeutico. Forse, dopo la débâcle dell’edizione targata Panariello qualcuno deciderà di staccargli la spina. O forse no. E questo qualcuno si ostinerà ad alimentarlo, se è vero che per il 2007 si è già deciso di richiamare in servizio l’eterno Pippo Baudo, il re del nazional-popolare, la cui maschera è già comparsa l’altra sera sul palco dell’Ariston. Così, per preparare il terreno al nuovo che avanza.
Anche se dovrebbe far parte del suo mestiere, la dirigenza Rai, come buona parte del mondo politico, mostra difficoltà a sintonizzarsi con le abitudini dominanti degli italiani. La sera dopocena, i giovani sono in giro per locali, gli adolescenti al telefonino, il pubblico più sofisticato guarda i telefilm americani, il resto fa zapping durante le canzoni più dimenticabili. Eppure gli ospiti di questo Sanremo sono stati tre cantanti pop per teen agers (tra i quali solo Shakira degna di nota), John Cena e Orlando Bloom, il Legolas del Signore degli Anelli. Fatta la tara, resta, appunto, quel 35-40 per cento medio che staziona su Raiuno...
Dunque, c’è poco da stupirsi. E ora, a verdetto Auditel suffragato, non si può cavarsela solo buttando la croce addosso a Panariello. Lì, dalle parti di Viale Mazzini prima, e dell’Ariston poi, lo sapevano già. Anzi, erano rassegnati. E la rassegnazione la si leggeva in queste sere anche nel volto di Peter Pan (copyright Cristiano Gatti). In fondo, a lui si è arrivati per esclusione: Bonolis aveva cambiato casacca, Fiorello continuava a rifiutarsi, Baudo era in quarantena per vecchie ruggini e controversie legali, Fazio divide la platea. Restava Panariello, ultima spiaggia. Ma con un comico travestito da presentatore, un gruppo di cantanti di media levatura, molti dei quali spuntano una volta l’anno come le tasse (a proposito: era così difficile arruolare Enrico Silvestri, Gianna Nannini, Pacifico, Samuele Bersani?), l’incombere della par condicio e una dirigenza Rai routiniera e a fine mandato, la malinconia di questi giorni era l’esito inevitabile.
Ben lontano dall’essere l’evento della Tv bipolarista - semmai l’evento di questi mesi sono state le recenti Olimpiadi invernali, che hanno proiettato la loro ombra anche sulle canzonette - il rito del Festival nazional-popolare è, comunque, appassito da tempo. L’ha detto chiaro Renzo Arbore, intervistato da Repubblica: «Nella tv di oggi la rassegna strettamente musicale, una canzone dopo l’altra, è datata» ha diagnosticato l’inventore di Indietro tutta. «Dal Festival il pubblico si aspetta lo spettacolo, oltre alle canzoni. La liturgia di Sanremo deve trovare la via televisiva per proporre nel modo migliore la musica, per valorizzarla». Nell’èra dei reality, della tv satellitare, dei telefilm americani, dei blog e dei videofonini insistere su una cerimonia spaghettara significa votarsi al declino. Si dirà: è una diagnosi già fatta negli anni scorsi. Non sempre. Il Festival casereccio dà questi risultati. Ne dà altri se, sul canovaccio tradizionale, si prova ad aggiungere qualche elemento di innovazione, quel pizzico di fosforo in più. Lo dimostrano le edizioni di Bonolis, le due di Fabio Fazio e quella del trio Bongiorno-Chiambretti-Marini. Le altre, con la Carrà e l’ultimo Baudo, hanno segnato il passo. Insomma, nell’attesa di sciogliere il dubbio se il Festival vada cambiato o abbattuto, intanto abbiamo una certezza: e cioè che solo chi ha provato a riformarlo è stato premiato dal pubblico.
A questo punto, richiamare Baudo, significa restaurazione, ritorno alla tradizione. Come dire: perseveriamo.

Ma almeno, stavolta, sbaglieremo in grande.

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