Alla sbarra fra urla e insulti. Poi l’archiviazione

L’incubo giudiziario di Orhan Pamuk inizia il 6 febbraio 2005. Lo scrittore sta concedendo un’intervista a un giornale svizzero, quando gli viene chiesto di esprimere la sua opinione sulgenocidio armeno. Il romanziere risponde che il suo Paese dovrebbe riflettere non solo sul milione di armeni uccisi nel 1915, ma anche sulle oltre 30mila vittime della guerriglia fra Stato turco e separatisti curdi dal 1984. Non immagina nemmeno che cosa lo aspetta.
La notizia delle sue dichiarazioni arriva anche in Turchia. Un gruppo di avvocati nazionalisti, fra cui anche Kemal Kerincsiz, che un anno e mezzo dopo trascinerà in tribunale Elif Shafak, chiede che Pamuk venga incriminato. L’accusa è aver infranto l’articolo 301 del nuovo codice penale, che punisce l’offesa all’identità turca. Così, nonostante le pressioni da parte della Commissione Europea e lo sdegno di tutta la comunità internazionale, il 31 agosto del 2005 Orhan Pamuk viene incriminato e invitato a presentarsi il 16 dicembre al tribunale penale di Sisli. Inviso all’establishment militare per le sue idee di sinistra e ai nazionalisti per le sue dichiarazioni contro la verità ufficiale, si ritrova tutto il Paese contro.
La prima vittima illustre dell’articolo 301 aspetta il giorno del processo nell’isolamento pressoché totale. Parla poco con i giornalisti del suo Paese e quando lo fa è solo per rispondere a domande sui suoi libri. A Nisantasi, il raffinato quartiere di Istanbul dove si trova il palazzo di famiglia, lo si vede di rado. La mattina del 16 dicembre a Istanbul piove a dirotto. A Sisli, uno dei quartieri più occidentali della megalopoli turca, devi stare attento a non scivolare per strada e soprattutto a chi chiedi informazioni. Perché la gente appena sente che vai al processo di Pamuk o ti insulta o ti dice di lasciare stare perché «quello è solo un traditore e deve pagare per quello che ha fatto». L’udienza è fissata per le 11. Fuori del tribunale centinaia di nazionalisti aspettano Pamuk, urlandogli «bastardo» e lanciando pietre e uova contro l’edificio.
Lo scrittore arriva puntuale. Sembra calmo, ha una giacca blu, la camicia azzurra, la cravatta. Avanza in mezzo allo stuolo di poliziotti e di giornalisti con la faccia di chi sa di essere solo contro tutti. L’udienza dura pochi minuti perché, sembra un paradosso, non si può procedere. Il processo viene rinviato al 7 febbraio per quello che sembrerebbe un cavillo, ma che poi si rivelerà l’ancora di salvezza per il romanziere e soprattutto per il governo di Ankara. Prima di dare avvio al procedimento, infatti, il ministro della Giustizia Cemil Çiçek deve decidere se Pamuk vada processato secondo il vecchio o il nuovo codice penale. È un modo come un altro per prendere tempo.

Tre settimane dopo Çiçek rinvia il processo sine die e il 22 gennaio di quest’anno il tribunale di Sisli archivia la pratica perché il fatto non sussiste.
Ma il travaglio interiore di Pamuk continua. In aprile concede un’intervista al quotidiano inglese Independent, dicendo «lasciatemi fare lo scrittore». Forse solo da ieri è veramente libero.

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