Passano gli anni, cambiano i governi, ma la Rai è sempre la stessa. Al di là di ogni polemica, la serata di Adriano Celentano e l'annunciato ritorno di Michele Santoro al «suo microfono» ci dicono che - se escludiamo alcune parentesi, per quanto importanti e laceranti possano essere state - a Viale Mazzini il tempo non passa. I telegiornali non sembrano troppo diversi da quelli di cinque o dieci anni fa. La stessa programmazione appare simile e i cambiamenti che ci sono stati, negli sceneggiati o negli show, non ne hanno modificato linguaggio e natura. C'è qualcosa di indistruttibile nella maggiore azienda culturale italiana, che sopravvive ai «regimetti» e ai «regimi», alle «occupazioni» ed alle «liberazioni» che si alternano. Qualche sera fa, mi è capitato di parlarne brevemente con Carlo Rognoni, consigliere d'amministrazione di sinistra, incontrato per caso in quel grande salotto che è il centro di Roma. Mi sembrava d'accordo con questa fotografia di un'impresa che funziona, che ha la sua supremazia, nonostante che tutti se ne lamentino e che sia (ma questo da sempre) al centro di un conflitto in cui si evocano solo le somme categorie della libertà d'informazione e della lotta al monopolio.
Rockpolitik lo ha dimostrato senza possibilità di smentita. E nello stesso tempo ha sottolineato una questione: la cultura della Casa delle libertà non è riuscita ad imprimere non dico un'egemonia - termine pesante e un po' ambiguo - ma neppure un segno durevole. Se si deve ricordare qualcosa, è difficile andare oltre il linguaggio di Antonio Socci e il suo tentativo di affrontare l'approfondimento da un punto di vista completamente diverso da quello dominante, anche in altre Tv. Se per pluralismo non intendiamo soltanto il confronto tra opinioni differenti, ma la presenza di un vasto arco di culture, è proprio difficile non constatare che non si è usciti dai recinti tradizionali. E che il pensiero liberale o se si preferisce neo-liberale, che rappresenta l'identità dell'area moderata, è rimasto fuori dai cancelli di Viale Mazzini.
Non è un problema riducibile - come si è letto - alle conduzioni, alla guida delle reti e dei tg oppure a questa o quella scelta contingente. E neppure alle resistenze incontrate in quello che è stato e resta un conflitto politico reale all'interno e all'esterno dell'azienda. Il problema vero è che in questi quattro anni non c'è stato alcun investimento culturale sulla Rai e sulla comunicazione. Lo scontro si è concentrato su alcuni nomi, come quello di Santoro, o sui grandi equivoci attorno alla satira, che pure è ora una delle forme di espressione della politica, in primo luogo ulivista. O ancora sul concetto di «proprietà», con il reciproco scambio di accuse tra il «monopolio berlusconiano» dell'etere e l'«occupazione della sinistra». Ma non c'è stata quella che qualche era preistorica fa si chiamava «battaglia delle idee». Non c'è stato un progetto per rinnovare la programmazione, per affermare un reale pluralismo culturale, per tentare un nuovo linguaggio, più problematico, più attento alla complessità della società italiana o del mondo.
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