Se i giudici sono questi meglio farsi processare in tv

La prossima volta chiedo d’essere processato a Forum. Non me ne frega niente se il giudice monocratico Santi Licheri ha già compiuto 90 anni e da 23 sentenzia soltanto in televisione. Voglio lui. Almeno è saggio e divertente, studia le carte, s’immedesima nella parte, interroga i contendenti. Si può, dottor Licheri? Io credo di sì. Per come è finita nei giorni scorsi in un tribunale vero, non vedo quali ostacoli dovrebbero sussistere. Sempre meglio cercare giustizia nella parodia che affidarsi alla parodia della giustizia.
Spiego subito. In un editoriale apparso su questo giornale agli inizi del 2006 riferisco di alcune critiche, documentate, mosse da un politico a un organismo pubblico pagato dai contribuenti, un ente inutile a mio avviso (e non solo a mio avviso). Di passata, mi capita di fare un fuggevole riferimento a un ex presidente della medesima istituzione, senza citarne né il nome né il cognome: 262 battute su 5.020, la ventesima parte dell’articolo. Trascorsi più di due mesi, l’avvocato di questo sconosciuto invia al Giornale una raccomandata nella quale sostiene che avrei leso «l’immagine e l’onorabilità» del suo assistito - ripeto, neppure nominato nel testo - e segnala che chiederà in giudizio «il risarcimento del grave danno all’identità personale, del danno morale e di ogni altro danno patrimoniale e non patrimoniale».
La lettera è indirizzata all’editore anziché al direttore responsabile. Chiaro: puntano ai soldi. Viene infatti avviata un’azione civile. Passano altri due mesi e arriva l’atto di citazione: vogliono 140.000 euro. Un ristoro adeguato alla «sofferenza psichica di carattere interiore» e al danno «esistenziale», quantificato in 20.000 euro.
Tra notifiche, rinvii e scambi di corrispondenza, se ne vanno due anni. Finalmente si arriva al giudizio. Il ruolo d’udienza affisso sulla porta della sezione del tribunale prevede per quel giorno almeno una ventina di cause, forse una trentina, non sto a contarle. O m’è capitato il giudice Mandrake o sono una schiappa io, che 20 articoli non riesco a scriverli neanche in un mese.
Legulei, imputati e parti lese bivaccano nell’aula in attesa del loro turno, creando un effetto Betlemme che dopo qualche minuto ti obbliga a guadagnare il corridoio. I banchi di legno ricordano quelli delle chiese. Il giudice è nascosto da un muro di persone che concionano per convincerlo circa la bontà delle loro tesi stando ritte in piedi davanti alla cattedra. Niente sedie.
S’avvicina un avvocato di mia conoscenza: «Perché sei qui?». Diffamazione, rispondo. «Ti è andata bene: il giudice è un po’ altezzoso, ma molto preparato». Venuto il mio turno, il giudice in effetti si dimostra preparatissimo. Apre il faldone alto una spanna e chiede: «Di che si tratta?». L’impressione è che sia la prima volta che pone mano al fascicolo, ma forse sono prevenuto. Lo ragguagliano sommariamente. «Sì, ma che cosa diceva questo articolo?». Non sono prevenuto. Affannosa ricerca tra le carte. Sepolta da qualche parte dovrebbe esserci anche l’inutile memoria di 42 pagine che avevo preparato per il mio avvocato: due giorni di lavoro buttati. Alla fine salta fuori la fotocopia sbiadita di un ritaglio di giornale. «Ah, ecco qua. L’ha scritto lei?», volge lo sguardo al mio accusatore. Con le identità dei comparenti non ci azzecca proprio, scambia di continuo i nostri nomi, ma si autoassolve con garbata levità: «Questo dimostra la terzietà del giudice». Legge l’editoriale biascicando sottovoce le parole, gli scappa persino una risata, devo arguirne che gli è piaciuto.
L’avvocato della controparte si lancia in un’intemerata contro il sottoscritto. All’espressione «danno biologico», il giudice rintuzza: «Be’, danno biologico... Lei sa bene che la Cassazione su questo punto...». Gli stamperei un bacio in fronte. Poi conclude spiccio: «Insomma, avvocato, vada al sodo: che cosa chiedete?».
Il legale del presunto diffamato, visibilmente in imbarazzo a parlare di quattrini, butta lì: «Com’è noto, signor giudice, in questi casi i giornali nascondono le rettifiche in 10 righe a fondo pagina che non servono a nulla, quindi chiediamo il risarcimento». E lui, conciliante: «Vabbè, ma ormai sono passati due anni, il suo cliente non sarà più così arrabbiato, e dunque?». Mi guarda: «Lei che cosa propone?». Vorrei dirgli: assolto per non aver commesso il fatto, vostro onore. Ma salendo le scale il mio difensore mi aveva raccomandato pacatezza e sobrietà, «niente polemiche, non scendiamo nei dettagli». Già, sembra che qui i fatti non interessino a nessuno. E dunque posso solo avanzare un’obiezione sulle «10 righe a fondo pagina che non servono a nulla»: signor giudice, sono pronto a esibire oggi stesso - il tempo di fotocopiarla - l’intera pagina, con richiamo in prima, che Il Giornale ha dedicato un mese fa a due lunghissime lettere, scritte dalle vedove di Piergiorgio Welby e Luca Coscioni, che si erano risentite per una mia domanda di appena quattro righe sull’eutanasia rivolta a un tetraplegico; un atto non dovuto, di pura cortesia e civiltà, una volta si sarebbe chiamato dibattito di idee, visto che non c’era alcunché da rettificare. Lascio sottintesa la deduzione: è chiaro che quando fin dall’inizio ci si guarda bene dal chiedere una rettifica, in genere è perché si punta a qualcos’altro.
Il finale è degno di Un giorno in pretura. Non quello di Roberta Petruzzelli su Raitre, però: quello di Steno con Peppino De Filippo, Alberto Sordi e Walter Chiari. «Come possiamo chiudere questa vicenda?», taglia corto il giudice. «Lo chiedo a voi. Fatemi una proposta. Bene, a questo punto sospendo i lavori. Vedete un po’ di trovare un accordo».
L’accordo si trova. In corridoio. Gli avvocati sono bravissimi a trovare gli accordi nei corridoi. Fossero loro, i giudici, non ci sarebbe neppure bisogno di celebrare i processi. A che serve dibattere le ragioni e i torti degli uni e degli altri in aula se ci si può aggiustare fra le parti fuori dall’aula? In una parola: in questi casi a che serve la magistratura?
Mi permetto di avanzare una proposta. Siccome quando finivo in tribunale per un articolo scritto sul Corriere della Sera me la cavavo sempre, mentre con le querele che mi becco al Giornale è assai più difficile (chissà perché), penso che sarebbe giusto assicurare all’imputato il processo cieco. Di che si tratta? Semplice: avete presente la degustazione cieca dei vini? È quella in cui gli esperti esprimono un giudizio di merito e decidono chi vince e chi perde senza conoscere preventivamente le caratteristiche - marca, regione di provenienza, annata - delle bottiglie che assaggiano.
Perché non si fa lo stesso in tribunale nelle cause per diffamazione? Testo dell’articolo trascritto in formato Word, niente firma, niente testata, via i nomi delle persone coinvolte, via i riferimenti geografici. Quanto alla sede del giudizio, si estrae a sorte. Dite che così sarebbe impossibile interrogare l’imputato? Poco male. Mai incontrato, finora, un magistrato che fosse interessato ai miei argomenti.

E comunque bastano e avanzano gli avvocati, a recitare la parte. Mi piacerebbe sapere che cosa ne pensa il venerando giudice Santi Licheri. Chi meglio di lui nella giustizia sceneggiata?
Stefano Lorenzetto
stefano.lorenzetto@ilgiornale.it

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