Quando aprì al pubblico una dozzina di anni fa, non erano in molti a scommettere sulla sua durata. E non solo perché, visto dall’esterno, l’edificio più che un museo d’arte sembrava una grande pizzeria appena restaurata. La difficoltà stava intanto nell’importare il contemporaneo in Sardegna, non nei paradisi della Costa Smeralda o in città tradizionalmente aperte alla cultura come Sassari. Il MAN, acronimo del Museo d’Arte di Nuoro, sorge appunto dal 1999 nel capoluogo barbaricino, non esattamente meta turistica, gelido in inverno e bollente d’estate. Fin dall’inaugurazione la direttrice è sempre la stessa, Cristiana Collu, tosta e determinata nel portare avanti questa sua mission impossible. Mostra dopo mostra, il MAN è diventato uno degli spazi pubblici più sfiziosi d’Italia, alternando linguaggi sperimentali e artisti giovani con riflessioni sul classico, senza escludere sguardi su fine Ottocento-inizio Novecento.
L’esposizione dell’estate 2010 è senz’altro quella del museo nuorese. Protagonista Ed Templeton, nome non ancora conosciutissimo dal grande pubblico, ma figura di culto nel cosiddetto «nuovo underground americano». Nato nel 1972 a Orange Country, appartiene a quella microgenerazione di ribelli senza motivo che non hanno nessun desiderio di cambiare il mondo, consapevoli di essere arrivati troppo tardi per questa aspirazione. Nel loro modus vivendi richiamano un po’ i vecchi fricchettoni, eppure sono passati attraverso la disillusione nichilista del punk. Meravigliosi perdenti, come Kurt Cobain, il Loser dell’hit d’esordio di Beck, i protagonisti dei film di Gus Van Sant e di Larry Clark. In particolare Ed rifugge qualsiasi tipo di eccesso e stramberia: non fuma, non beve, è vegano e felicemente sposato con la stessa donna da una vita. In più, lavora come designer e creatore di moda per le multinazionali senza alcuno scrupolo moralista.
Il suo background, non è una frase fatta, arriva davvero dalla strada. Invece di frequentare le scuole d’arte, il giovane Templeton si forma tra gli skaters californiani diventando, nel 1990, un professionista di questo sport. Il freestyle diventa così una sorta di rivisitazione della street culture anni ’80, una disciplina metropolitana che si sposa con le altre sue passioni: suonare, disegnare tavole di fumetti e scattare fotografie con la tecnica dello Snapshot, ovvero quell’istantanea dalla grana sporca che consente di fermare la vita reale senza filtri né artifizi. Protagonisti di questo storyboard in progress sono gli adolescenti, antieroi senza particolari aspirazioni, scene rubate alla strada, visioni quotidiane e normali, oltre agli intensi nudi di sua moglie Deanna, di rara poesia.
Insieme ad altri coetanei, Templeton forma qualcosa che assomiglia all’ultima avanguardia artistica americana, pur essendo lontanissima dai linguaggi più astrusi e concettuali e decisamente più interessata a relazionarsi con altri linguaggi delle culture giovanili. Esposti nel 2004 in diverse sedi museali (in Italia la Triennale di Milano), con lui c’erano post graffitisti come Barry McGee, illustratori del Pop Surrealism, altri fotografi quali Ryan McGinley. Inizialmente i loro canali erano gli spazi off (e i lavori costavano pochissimo) per poi entrare nel circuito delle gallerie alternative che dettano le tendenze. La consacrazione di Templeton in Europa avvenne al Palais Tokyo di Parigi con una bellissima mostra nel 2003, mentre questa di Nuoro, che si intitola «Il cimitero della ragione» è la prima personale in Italia.
Accanto alle fotografie (nuovi sono i cicli Faith Fear/Fear Faith, incentrato sul lato crudele della religione, e The Second Pass, insieme di immagini scattate al volante della sua auto), sono allestiti i disegni, di eccezionale qualità, e le sculture che rappresentano l’espressione più recente, per un totale di oltre milleduecento opere, a confermare la duttilità nel muoversi tra un linguaggio e un altro. Templeton ha studiato come autodidatta alcuni maestri del segno quali Schiele, Hockney e Balthus, non sopporta le astruse trovate del concettuale e gli interessa che la sua arte comunichi e piaccia. E infatti Templeton piace al pubblico giovane, non solo per la disinvoltura con cui regge il peso delle sue infinite contraddizioni ma, soprattutto, perché la sua arte suona bene, come un disco indie dalle chitarre distorte.
Il dubbio che il suo successo sia legato alla moda e all’iconografia del momento non è del tutto infondato, ma l’artista sembra non aspirare all’immortalità, come i suoi protagonisti. «Trascinatemi - dice - poi lasciatemi andare e sarò già sparito».
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