Il presidente degli Stati Uniti, Obama, ieri ha annunciato il suo piano economico e fiscale. Una Finanziaria che vale, tanto per dare una dimensione, la ricchezza prodotta in Italia in un anno. Ne parliamo all’interno del Giornale. Ma soprattutto ha lanciato un messaggio che certamente non resterà confinato negli Usa. Gli scarsi investimenti, ha detto, nella salute, nell’ambiente, nell’educazione sono dovuti alle forti riduzioni fiscali del passato. In particolare per la fascia più ricca della popolazione. Ha ribaltato il sogno americano degli ultimi trent’anni. La ricchezza deve essere tassata più di quanto sia avvenuto sino a oggi. Le fasce più abbienti della popolazione, le grandi multinazionali devono pagare un prezzo più alto alla società. Il messaggio obamiano prova a scardinare un principio fondante della storia americana: la ricchezza può diventare ora una colpa. La crisi in cui viviamo diventa così figlia della disuguaglianza, della scorretta distribuzione del reddito, dall’incapacità del mercato di avere atteggiamenti virtuosi. Ne discende la necessità per lo Stato di riprendere in mano le redini dell’economia e della società. Più dei singoli interventi e dei progetti di spesa annunciati ieri, è questo, banalmente, il punto fondamentale della rivoluzione obamiana: c’è un colpevole di questa crisi. È la ricchezza. È difficile oggi mettersi dalla parte dei ricchi banchieri con stock option milionarie. È impossibile solidarizzare con i manager del settore automobilistico che si spostano con i jet privati. Ma siamo sicuri che il pianto dei ricchi sia la soluzione ai nostri problemi? Siamo convinti che il mito americano per il quale la ricchezza è lo specchio del buon successo si possa liquidare con una finanziaria? Ha senso credere che una redistribuzione per via fiscale sia la soluzione finale? Il rischio del messaggio obamiano è tutto qua. Un Presidente che si trova ad affrontare una grande recessione trova un capro espiatorio. Individua, con la complicità dell’evidenza, una classe sociale da tenere a bada. La preoccupazione non riguarda tanto e solo gli Stati Uniti, patria del sogno meritocratico. Riguarda piuttosto l’altra parte della luna. La parte in ombra, quella che non ha mai dato un’adesione completa ai principi liberali di oltreoceano. La nostra parte. Quella del vecchio Continente. Che ha fatto i conti per secoli con le proprie ipocrisie pauperiste ed egualitarie. I conti con le nostre pulsioni storiche; che hanno preferito nascondere il frutto del successo quando esso si esprimeva con gli alti gradi del termometro della ricchezza.
Il rischio, grande, enorme, che corriamo, è compiacerci dell’ultima grande ed efficace comunicazione obamiana. Il rischio di approfittare dell’America per recuperare quell’atteggiamento redistributivo che ha impantanato le nostre società, rendendoci tutti un po’ più uguali, ma anche tutti un po’ meno liberi.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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