Maria Elisabetta Alberti Casellati*
In questi giorni su un'autorevole rivista scientifica alcuni ricercatori sudcoreani hanno dato notizia di aver creato le prime linee di «cellule su misura», tratte da embrioni clonati; contemporaneamente da un'altra parte del mondo, a Newcastle in Inghilterra, altri scienziati fanno sapere di aver dato vita, in laboratorio, al primo embrione umano clonato del Paese a scopo terapeutico. Le due notizie seguono alla sentenza con cui l'Alta Corte Britannica ha espresso parere favorevole sui designer baby, embrioni selezionati con precise caratteristiche genetiche allo scopo di curare bambini affetti da gravi patologie.
Di fronte alle inaspettate e molteplici possibilità offerte dalle biotecnologie e alle notizie diffuse dai mass media, la società è al tempo stesso ammirata e perplessa, comunque preoccupata. Ci sono problemi di tipo etico da cui non si può prescindere e di fronte ai quali chi si occupa di politica è chiamato a prendere posizione. Ci chiediamo quale sia il rapporto tra scienza ed etica. In sostanza la domanda è se la politica e quindi il diritto debbano rinunciare a trovare valori morali condivisi per lasciare spazio alla libertà dell'individuo. Emerge così il rapporto tra bioetica e diritto, un legame significativo messo in evidenza anche dalla giovane Costituzione europea: «La dignità umana è inviolabile. Essa deve essere rispettata e tutelata».
Il progresso scientifico e tecnologico nell'ambito della biologia e della medicina ha portato l'attenzione del diritto sugli interventi relativi alla vita, facendo affiorare le implicazioni giuridiche legate alla contrapposizione tra scienza e diritti umani. Come possono diversi Paesi affrontare da soli le nuove sfide lanciate dal progresso scientifico? Anzitutto tenendo come comune denominatore del progresso scientifico il divieto di sacrificare i principi fondamentali su cui si regge la nostra società. Comè possibile parlare di progresso se si disconoscono diritti umani fra cui quello alla vita?
Di fronte a tali scenari emerge il rischio di una bioetica inadeguata a fronteggiare situazioni innovative così spinte. Questo pericolo, tuttavia, verrebbe meno se fosse seguito un unico principio: il rispetto per l'uomo. Un valore «universale» (la cui validità travalica la temporaneità dei problemi) e «incondizionato» nella sua applicazione dalle novità che anche la più sfrenata e fantasiosa tecnologia può inventare. La dignità umana è, a mio parere, il limite positivo che non dovrà mai essere travalicato in nome del progresso scientifico.
Riconoscere dignità a ogni uomo significa, quindi, considerare l'essere umano come «soggetto-fine» e non come «oggetto-strumento». La decisione dell'Alta Corte Britannica si pone in un'ottica opposta, poiché legittima l'esistenza di uomini di serie «A» e di serie «B», di «uomini più degni» e «uomini meno degni», di esseri umani al servizio di altri esseri umani. Se il progresso tecnologico e scientifico hanno permesso e permetteranno di raggiungere traguardi impensabili, non può mai essere perso di vista il soggetto - l'uomo - che rappresenta il «fine» e non il «mezzo» di ogni iniziativa, il punto di partenza e il punto di arrivo di ogni scoperta e di ogni invenzione. Se la scienza «dimentica» quale sia il suo fine, in quel momento deve intervenire il diritto a riaffermare un ordine naturale delle cose che non può essere mutato o derogato per qualsiasi ragione. Se invece si attribuisce al diritto il potere di stabilire dei criteri per decidere che alcuni essere umani sono più degni di altri, si ammette, conseguentemente, il potere di selezionarli, negando in radice la loro stessa essenza.
* Sottosegretario alla Salute
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